È splendida questa immagine di donne in festa. Quante volte le abbiamo viste anche noi danzare, piangere e cantare alla fine delle guerre e delle carestie. Dopo i grandi dolori di tutti, hanno saputo ricorrere alla loro speciale amicizia con la vita per ricominciare, per farci tornare, di nuovo, a sperare. Ci portiamo iscritti nell’anima il ritmo e il canto perché abbiamo danzato nel liquido amniotico, poi tra le loro braccia e dentro le culle. Abbiamo imparato a camminare e ci siamo addormentati per anni danzando e ascoltando canti di donne – e forse partiremo da questa terra con un’ultima danza dell’anima.Miriam è la prima danzatrice e cantante della Bibbia, ed è una donna anziana. Il popolo ebraico avrà fatto festa, danzato e cantato anche negli anni d’Egitto, durante la schiavitù e i lavori forzati (non si sopravvive a nessun lavoro se non si fa ogni tanto festa, se non si danza e canta). Le nuore di Noè avranno danzato e cantato nella terra salva dopo il diluvio. Certamente si sarà ballato durante le nozze tra Giacobbe e Rachele, e fatta grande festa con danze e canti in Egitto dopo la fraternità ritrovata tra Giuseppe e i suoi fratelli. Ma la Bibbia ha voluto preservare e custodire la parola "danza" fino al deserto di Sur, ci ha portato oltre il mare e l’ha usata per la prima volta per Miriam, per descriverci i sentimenti di donne lodanti in festa.
Esiste una naturale affinità tra la danza, il canto, la musica e le donne. Molte nella Bibbia intonano inni (Deborah, Anna, e infine un’altra Miriam-Maria), e molte danzano (tra queste anche la figlia di Erodiade [Mt 14,6], una danza "diversa" che ci ricorda l’ambivalenza di molte, forse tutte, le realtà davvero grandi dell’umano). È anche questo il talento delle donne.Miriam non è giovane. Era la sorella di Aronne, che l’Esodo ci presenta come un uomo di 83 anni (7,7). Non sono soltanto i giovani e le giovani a danzare. C’erano molte fanciulle in quell’accampamento, ma fu Miriam a impugnare il tamburello, a intonare il canto, a iniziare la danza. Vedere qualcuno che danza e canta lodando è sempre bello. Più bello se a danzare e a lodare è una donna. Un offertorio durante una messa in Kenya, dove il pane e il vino dei poveri erano accompagnati verso l’altare dai cori e dalle danze di decine di ragazze africane, è tra i miei ricordi più forti e vivi. Ma più bello ancora è vedere una donna anziana danzare e cantare alla vita. Non c’è canto più bello e pieno di speranza di quello che sale dal tramonto dell’esistenza, perché dice che la vita è dono in tutte le sue stagioni, e che l’ultimo inno è il più bello di tutti. Quella di Miriam è la danza della gratuità, quella di un corpo che nella sua essenzialità riesce a dire parole di bellezza che gli anni giovanili e le sue danze diverse e forti non sapevano e potevano dire. Oggi Miriam non danza e non intona più il ritornello, perché la nostra cultura non la fa danzare, non ama il suo corpo non più attraente ai nostri sensi che hanno smesso di vedere bellezze diverse e più grandi. E così perdiamo la danza più pura, quella che solo un corpo fragile e ferito può donarci, facendole spazio ritraendosi.
Dopo il canto del Mare, «Mosè fece partire Israele dal Mar Rosso ed essi uscirono verso il deserto di Sur» (15,22). Inizia qui la storia del deserto, in un luogo che al lettore attento della Bibbia evoca subito un’altra donna: Agar. Fu in quel deserto di Sur che quella madre-serva vagò fuggiasca con suo figlio (Ismaele). Lì fu consolata dal primo angelo inviato da YWHW sulla terra (Gen 16,6-7), e lì si dissetò a una sorgente. Ma quell’acqua e quella consolazione che Agar, la serva egiziana (16,3) nella casa di Abramo, trovò in quel deserto, non la trova ora la stirpe di Abramo liberata dagli egiziani: «Arrivarono a Mara ma non poterono bere acqua da Mara, perché erano acque amare… Allora il popolo mormorò contro Mosè: "Che cosa berremo?"». (15,23-24).
Ci sono le proteste prima dei miracoli e quelle dopo. L’esperienza naturale e realissima della sete manda in crisi quella straordinaria del miracolo del mare. Possiamo vedere anche il mare aprirsi di fronte ai nostri occhi, ma se la fede-fiducia nella salvezza non rinasce ogni mattina dentro le nostre seti e fami quotidiane, quei miracoli restano un ricordo vero ma incapace di cambiarci la vita qui ed ora. I miracoli ci possono far partire, possono essere l’aurora delle nostre liberazioni, ma neanche i più grandi miracoli sono sufficienti per farci raggiungere la terra promessa. Per attraversare il deserto dobbiamo diventare capaci di trasformare le acque amare del quotidiano in acque che ci dissetano nelle tavole delle nostre mense domestiche e in quelle del lavoro. Nel cammino concreto dell’umano i miracoli dell’acqua umile di casa non sono meno importanti dell’apertura del Mar rosso.
Il segno di Mara è un umile legno: «Mosè gridò al Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce» (15,24-25). Nell’episodio delle acque amare-dolci, YWHW, il Dio della voce, non parla. Il popolo mormora contro Mosè, il profeta grida (quante grida ci sono nel libro dell’Esodo, e negli esodi di oggi), ma YWHW gli indica semplicemente un legno. Quel legno forse era già sotto gli occhi di tutto il popolo, ma solo gli occhi del profeta ora lo "vedono". Ogni profeta ha un grande rapporto con la parola, è quasi soltanto parola. Parla, dice parole diverse e più grandi proprio perché quelle parole non sono sua proprietà privata o un suo manufatto, ma dono ricevuto e ridonato al popolo. È la gratuità della parola che fa la differenza tra Mosè e i tanti falsi profeti di ogni tempo, che usano le tecniche della parola a proprio vantaggio. Questa prima prova a Mara ci rivela qualcosa sull’importanza degli occhi del profeta. Il profeta vede diversamente e di più. Parla anche guardando le cose in un altro modo. Tante persone, più di quanti possiamo immaginare, continuano a salvare il loro mondo semplicemente guardandolo diversamente, a trasformare con lo sguardo legni scartati in strumenti di salvezza. Li salvano perché sono capaci di "vederli", di riconoscerli nella loro vocazione e bellezza, e così farli diventare beni di tutti – vedremmo tanta bellezza nelle persone attorno a noi se solo fossimo capaci di guardarle. Ci sono tanti legni di salvezza abbandonati lungo le rive delle nostre città e dentro le nostre scuole, perché nessuno li ha mai visti, guardati, trasformati, amati con gli occhi. Non essere guardati da nessuno, non avere qualcuno, almeno uno, che ci vede, conosce e riconosce, è la povertà più grande.
Salveremo le nostre imprese se impareremo a guardarle diversamente, e se ricominceremo a vedere e a guardare diversamente i lavoratori. Ma nei nostri luoghi di lavoro ci servirebbero più profeti, più artisti, poeti e scrittori (e meno esperti in "risorse umane"). Saremmo così più capaci di trasformare le acque amare delle nostre crisi in acque dolci che salvano il lavoro e ne creano di nuovo. Potremmo intravvedere un’oasi in fondo al deserto, e credere che nessun deserto è infinito: «Poi arrivarono a Elìm, dove sono dodici sorgenti di acqua e settanta palme. Qui si accamparono presso l’acqua (15,27).l.bruni@lumsa.it