«Ho 27 anni, 4 figli e in Senegal non riesco a trovare lavoro». Inizia così il racconto di Mohamed (nome di fantasia), ritrovatosi in un centro d’accoglienza di Agadez, la storica porta del deserto, situata nel mezzo del Niger. «Sono analfabeta e facevo l’artigiano prima di partire. In Libia – continua Mohamed – lavavo le auto. Però non sono riuscito a guadagnare abbastanza per partire per l’Europa». Dopo un periodo di circa un anno passato a Tripoli, per il giovane senegalese non è infatti stato possibile imbarcarsi per l’Italia. La guerra civile libica, intensificatasi molto durante l’ultimo anno, ha reso troppo rischiosa la sua permanenza nel Paese. Così, insieme a molti altri suoi connazionali, Mohamed si è diretto verso Sud. «Questi viaggiatori hanno subito ogni tipo di abuso: fisico e psicologico», afferma un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), che ha raccolto tra gennaio e dicembre 2014 più di 2.800 testimonianze. Durissime realtà ascoltate presso i centri di assistenza allestiti nelle città di Agadez, Arlit e Dirkou, quest’ultima città situata nel profondo Sahara. «I migranti vivono sotto una costante pressione da parte dei loro trafficanti, che – spiega il rapporto Oim – minacciano di denunciarli alle autorità, di confiscare i loro documenti, oppure di rubare tutti i loro averi, lasciandoli privi di qualsiasi risorsa per garantirsi la sopravvivenza».
Ma in quali condizioni hanno origine questi flussi continui di persone che sognano "l’eldorado europeo"? «La principale causa delle partenze ha a che fare con la mancanza di lavoro nei Paesi d’origine come Ghana, Senegal e Gambia – afferma Bachir, residente di Agadez, che da anni vede partire anche molti suoi amici verso il deserto –. Altri, invece, scappano dalle guerre in corso in Mali e in Nigeria, luoghi in cui i conflitti civili continuano ad aggravarsi». Una volta lasciate le proprie famiglie, i migranti tendono ad affidarsi a una rete di criminali che conosce bene il percorso. In molti casi, il trafficante di turno accompagna piccoli gruppi in pullman fino ad Agadez. È lui che solitamente tratta con le guardie alle frontiere, paga i militari ai diversi posti di blocco e risolve i problemi relativi ai documenti. Superati tutti questi ostacoli, ci si installa ad Agadez, la Lampedusa del deserto, in attesa di ripartire. Qui si formano i cosiddetti "ghetti", piccoli quartieri della città divisi tra le diverse nazionalità a cui appartengono i diversi migranti. Una specie di "capo-ghetto" tiene una meticolosa lista di chi deve ancora pagare per il viaggio o di chi ha già pagato e, a volte dopo mesi di attesa, può finalmente dirigersi verso il Nord a bordo di camion o di jeep 4x4. Le autorità del governo nigerino hanno pubblicamente denunciato l’illegalità di tale sistema formatosi negli anni, ma agire senza rischiare di violare i diritti umani delle vittime di tale tratta resta un’impresa assai complicata.
«Riuscire a smantellare le reti di intermediari, autisti, guide, funzionari corrotti, improvvisati centri di transizione e consulenti dell’immigrazione clandestina avrebbe un forte impatto sull’economia regionale di Agadez», ha spiegato l’anno scorso un diplomatico, parlando sotto anonimato, in un rapporto redatto dall’organizzazione Global Iniziative. Secondo gli esperti, è però «necessario capire quanta importanza hanno queste reti di trafficanti per le speranze dei migranti irregolari». Ad Agadez, comunque, l’atmosfera è cambiata rispetto a due anni fa, quando, dal Togo, Avvenire si era recato a verificare la situazione sul terreno nigerino. «Ormai questi gruppi di migranti tendono a nascondersi fuori città o nel deserto – racconta Bachir, raggiunto al telefono –. Quelli che vogliono andare in Libia o in Algeria non si vedono più in città, perché hanno paura di essere arrestati dalla polizia locale». Fino al 2013, secondo fonti dell’amministrazione pubblica di Agadez, «circa 2mila persone la settimana, tra nigerini e stranieri, passavano dalla regione per raggiungere la Libia». Tali cifre sono probabilmente aumentate durante l’ultimo anno. Ad Agadez i migranti spesso attendono che le loro famiglie nel Paese d’origine, o i parenti che già sono riusciti ad arrivare in Europa, spediscano loro attraverso le agenzie di trasferimento di denaro, come MoneyGram o Western Union, la somma necessaria per continuare il viaggio. Arrivati i soldi, oppure guadagnati attraverso l’elemosina o la prostituzione, nel caso delle donne, ha avvio la traversata. Ci possono tuttavia volere mesi.
Non si contano neanche più i morti che, ogni tanto, fanno tragicamente notizia perché ritrovati dalle autorità in stato di decomposizione, coperti di sabbia o incastrati tra le rocce. Chiunque sia riuscito a superare il Sahara, ha nel suo telefonino immagini raccapriccianti di teschi, ossa o vestiti laceri e abbandonati. Nell’ottobre del 2013, quasi cento cadaveri, soprattutto di donne e bambini, sono stati avvistati poco a Nord del confine algerino con il Niger. Il camion che li trasportava si era rotto. «Molti di noi scelgono le strade meno battute per evitare i militari o i criminali comuni del deserto – ammette Abdullahi, nigerino, sui 30 anni, che ha percorso due volte i corridoi della morte –. In altri casi, invece, sono gli stessi trafficanti a derubarci di tutto e a lasciarci nel mezzo del nulla. Una volta sono rimasto senza acqua per tre giorni». Anche Edward Okho, ghanese di 40 anni, dalla stazza massiccia, se l’è vista brutta nel deserto. «Siamo stati abbandonati dalla nostra guida e abbiamo sbagliato strada – racconta, mentre mostra un video preso con il telefonino di alcuni suoi compagni di viaggio morti lungo la strada–. Eravamo in 10, ma solo due di noi sono riusciti a raggiungere la Libia». Dopo aver lavorato per qualche anno a Tripoli come muratore, Edward ce l’ha fatta a tornare in Ghana. Sembra non rimpiangere la scelta che ha compiuto, sebbene ora guadagni 10 volte meno facendo la guardia di sicurezza nella capitale, Accra. «In Libia dovevo decidere se continuare a racimolare un po’ di soldi prima di tornare a casa o rischiare la vita per raggiungere l’Europa – conclude con un attimo di esitazione –. Oggi penso che, forse, ho fatto la scelta migliore».