Con la decisione di far saltare l’accordo commerciale transpacifico, di ridiscutere quello con Messico e Canada (il Nafta), di far saltare definitivamente il tavolo negoziale sul Ttip con la Ue minacciando allo stesso tempo dazi per i prodotti delocalizzati e reimportati negli Stati Uniti il presidente Donald Trump entra – ed era ampiamente previsto – come un elefante nella già malmessa cristalleria del commercio internazionale.
È sempre più chiaro che le prime prove sul campo del populismo al potere stanno scompaginando gli assetti esistenti aprendo un processo dall’esito incerto che porterà alla definizione di nuovi e diversi equilibri. Prendendo a prestito le categorie della dialettica hegeliana per interpretare queste novità possiamo identificare una tesi, un’antitesi e una possibile sintesi. Prima del "tempo dei populismi", la tesi sugli accordi commerciali è che l’abbattimento dei limiti agli scambi aumenta la prosperità misurata dal volume dei commerci e dalla crescita del Pil. Tale risultato si ottiene riducendo dazi, ove sussistono, e semplificando o eliminando le cosiddette "barriere non tariffarie", ovvero quei regolamenti che dietro lo schermo delle esigenze della salute, dell’ambiente o delle specificità culturali sono in realtà protezioni a produzioni nazionali inefficienti.
La sollevazione popolare contro il Ttip ha coagulato una vibrante critica di diverse componenti della società civile a questa tesi. Mettendola in discussione sul duplice fronte dei risultati e dei fini. Quanto ai risultati, gli effetti dell’abbattimento delle barriere sulla crescita del Pil non sono sempre così forti ed evidenti quando si parte già da scambi sostanzialmente liberi (l’esempio è il Ttip, gli stessi fautori dell’accordo stimano un beneficio complessivo attorno allo 0,5% in dieci anni). Ma la critica più radicale è quella sul fronte dei fini e dell’indicatore di sviluppo adottato. Se l’obiettivo della vita economica e sociale è quello del ben-vivere, della soddisfazione di vita, della ricchezza di senso e generatività, del bene comune, il saldo tra vantaggi e svantaggi degli accordi come il Ttip non appare affatto favorevole al progresso umano. Il rischio che l’abbattimento delle barriere generi in realtà una corsa al ribasso sulla dignità del lavoro, sulla sostenibilità ambientale e sulla salute ha generato quella protesta su cui i populisti si sono abilmente innestati. Elaborando però un’antitesi che presenta forti limiti dal punto di vista valoriale e degli obiettivi promessi.
La sintesi brutale di questo pensiero alternativo sta nel "compra nazionale" e "assumi nazionale" stabilendo di fatto che la dignità di una persona cambia sostanzialmente se due individui vivono a poca distanza divisi da un confine nazionale che li rende o meno elettori in quel Paese (e quindi interessanti o meno per i leader politici). Con l’ulteriore implicazione che la gravità delle condizioni di partenza non conta affatto quando chi sta peggio si trova al di là del confine.
Anche sul piano degli esiti (che saranno valutabili solo a distanza di tempo perché da misurare sulle dinamiche di variabili di economia reale come commerci e crescita che mutano lentamente) l’efficacia della deriva nazionalista sarà tutta da verificare. Non è possibile infatti ipotizzare che gli altri Paesi non risponderanno alle mosse dei "neonazionalisti" e, dunque, il rischio di spirale di dazi e ritorsioni, all’ordine del giorno, ridurrà significativamente i promessi effetti su occupazione e ricchezza nazionale.
L’unica ragionevole sintesi, purtroppo non particolarmente attraente dal punto di vista elettorale, è che gli scambi internazionali, come tutto il resto dell’economia, devono essere orientati alla dignità della persona, alla tutela dell’ambiente, alla salute e al perseguimento del bene comune. E che la persona umana ha lo stesso valore indipendentemente dalla nazionalità ed esiste una maggiore urgenza di intervento a favore degli ultimi, dovunque essi si trovino. Questo non vuol dire ovviamente che un politico nazionale non debba preoccuparsi in primo luogo di coloro che gli sono più vicini. Ciò in virtù del mandato ricevuto e coerentemente con il principio valoriale del prossimo e della prossimità. Si dà il caso però che il prossimo coincida in larga parte ma non in toto con il nazionale. È prossimo anche il disperato che chiede asilo arrivando sulle nostre rive in fuga da Paesi con condizioni politiche ed economiche di gran lunga peggiori delle nostre.
Nella confusione dei nostri giorni, la vecchia sintesi che fa riferimento all’intuizione dei pionieri equosolidali, è un seme ancora perfettamente valido che dovrebbe ispirare i nostri passi. Non un voto col portafoglio solo per il "prodotto nazionale", ma per ogni "prodotto ad alta dignità" del lavoro, che tutela l’ambiente e la salute, ovunque esso sia stato realizzato. E dunque, nella filiera tradizionale del sud del mondo da cui provenivano i primi tradizionali prodotti equosolidali, ma anche nella linea più recente del solidale italiano. Perché i Nord e i Sud sono ormai mescolati e non più corrispondenti a coordinate geografiche. Il bracciante sfruttato dai caporali in Sicilia o in Puglia e il contadino sfruttato in Africa o in Asia indipendentemente dal fatto che le filiere si trovino in Italia o all’estero sono un’insulto alla dignità del lavoro e una minaccia alle tutele conquistate. E questo voto col portafoglio intelligente può e deve essere favorito dal potenziamento dell’infrastruttura informativa (a costo zero per lo Stato) sulla "patente" socioambientale dei prodotti e da una rimodulazione dell’imposta sui consumi che premi le filiere migliori. Oltre i limiti evidenti della tesi e dell’antitesi, questa sintesi è anche la risposta più cooperativa, intelligente e lungimirante ai dilemmi della fase attuale della globalizzazione.