«Perché non è già tutto scomparso?», si domandava nel 2007 il filosofo francese Jean Baudrillard. L’interrogativo era legittimo, dato che allora, prima del grande infarto della finanza mondiale, sembrava davvero che la realtà materiale fosse un ingombrante retaggio del passato. Meglio puntare sull’incorporeo, meglio investire sul digitale, meglio favorire la viralizzazione, termine che all’epoca si adoperava con noncuranza, fidando nell’impunità della metafora. Da un anno a questa parte, Baudrillard avrebbe trovato le risposte che cercava. 'Tutto' non è scomparso perché ci siamo accorti che di 'tutto' abbiamo bisogno. Cibo e bevande, medicinali e dispostivi di protezione, abiti e vaccini. D’un tratto l’intero armamentario della concretezza vecchio stile ha rivendicato i suoi diritti. Mentre il digitale trionfava, vero anche questo. Solo che, precipitati nella condizione che avevamo ingenuamente desiderato (e che lo scrittore inglese E. M. Forster aveva preconizzato in un racconto del lontano 1909, 'La macchina si ferma'), abbiamo dovuto ammettere che no, la mediazione di uno schermo non basta. È utile, d’accordo, ma non sufficiente per lavorare, studiare, intrattenere relazioni. La rete accorcia le distanze, non le annulla.
Anzi, nel momento in cui siamo obbligati a svolgere 'a distanza' quasi ogni attività, quella stessa distanza viene ulteriormente ribadita, acuita, percepita come incolmabile. Per superare le distanze occorre ancora fare all’antica, spostandosi a piedi, in automobile, in treno, in aereo o magari in nave. Per movimentare le merci, in particolare, le navi servono come e più di prima. Se non ne fossimo persuasi, ecco che la vicenda dell’'Ever Given', il cargo incagliatosi martedì scorso nel Canale di Suez, lo conferma in modo pressoché monumentale.
A ben vedere, si tratta dell’ultimo e del più vistoso in una serie di episodi che, da qualche tempo, ci stanno nuovamente costringendo a fare i conti con la realtà così com’è: tangibile, materiale, difficile da maneggiare. Poco meno di tre settimane fa, per esempio, l’incendio divampato a Strasburgo nel server di una delle maggiori aziende tecnologiche francesi, la Ovh, ha provocato guasti e rallentamenti a cascata nell’intera rete europea, con conseguenze non trascurabili anche sul fronte sanitario. Perfino l’apparente volatilità del digitale, insomma, nasconde una componente di irriducibile fisicità. Le circostanze nelle quali questa rivalsa della realtà si sta manifestando hanno qualcosa in comune. In un modo o nell’altro, rimandano a una categoria fissata da un altro importante pensatore francese, Michel Foucault, che già nel 1966 aveva coniato il neologismo 'eterotopia': uno spazio 'altro', in qualche misura separato dal luogo che lo ospita, così come un giardino è altra cosa rispetto al palazzo attorno al quale si estende e un carcere, o un ospedale, non corrispondono esattamente alla porzione di terreno su cui insistono i rispettivi edifici. Le eterotopie rispettano regole che sono loro esclusive e che spesso assumono l’aspetto di un’utopia realizzata.
Non saranno i migliori dei mondi possibili, eppure esprimono comunque una possibilità di completezza o di funzionalità. Foucault non poteva prevederlo, ma un server come quello di Strasburgo è appunto un’eterotopia che, mediante la propria alterità, preserva l’efficacia del mondo digitale. Quello che invece Foucault sapeva benissimo è che «la nave è l’eterotopia per eccellenza». «Le civiltà senza navi – sosteneva – sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari». Non fosse altro che per questo, le navi non andrebbero dimenticate, non andrebbe dimenticato che la realtà è reale e che nulla, per fortuna, è ancora scomparso.