La Storia è sempre, in qualche misura, una questione personale. I confini potranno anche presentarsi come astratte linee di demarcazione, ma a conoscerne veramente la portata sono le persone che ogni giorno sperimentano che cosa significhi essere nato da questa o da quella parte. Sì, la Storia è un intreccio di speranze e delusioni, di sogni generosi e di incubi quotidiani, di nascite e di lutti. Un popolo o, meglio, una nazione non la si comprende se non da questa prospettiva familiare, all’interno della quale i sentimenti contano più delle ideologie.
Questo è vero in tutto il mondo e in ciascun Paese, ma in alcuni Paesi e in certe parti del mondo è ancora più vero. Il Medio Oriente, per esempio. E lo Stato di Israele, che fin dalla sua fondazione si rispecchia nel fantasma di uno Stato assente, la Palestina. Quali siano le conseguenze lo sappiamo e, se mai cercassimo di dimenticarcelo, provvederebbe la cronaca a ricordarcelo. Il resoconto terribile del 7 ottobre, il bollettino dei bombardamenti, l’appello degli ostaggi, la conta delle vittime. È una trappola dalla quale sembra non esserci via d’uscita, perché La pace è l’unica strada, come ostinatamente torna ad affermare il titolo del libro di David Grossman curato da Alessandra Shomroni per Mondadori (pagine 92, euro 16).
Insieme con Amos Oz e Abraham B. Yehoshua – morti rispettivamente nel 2016 e nel 2022 –, Grossman è lo scrittore israeliano che con più insistenza e coraggio ha denunciato il paradosso della «guerra che non si può vincere», come recita il titolo di un’altra sua racconta di interventi civili. Nel 1987, poco più che trentenne, ha documentato le condizioni di vita nei campi dei profughi palestinesi con un reportage, Il vento giallo, che rimane un punto di riferimento imprescindibile. Grossman è un autore particolarmente amato in Italia e i suoi romanzi (tra cui i capolavori Vedi alla voce: amore del 1986 e A un cerbiatto somiglia il mio amore del 2008) sono attraversati dalla consapevolezza della contraddittoria unicità di Israele. Da sempre favorevole alla cosiddetta “soluzione dei due Stati”, in La pace è l’unica strada Grossman riunisce contributi apparsi negli ultimi anni, testimonianza di un ebraismo «laico e umanistico» che non sottovaluta mai l’importanza dell’elemento spirituale.
Più che altro, Grossman è un osservatore appassionato dell’umanità. Nel tracciare il bilancio dei combattimenti del maggio 2021, rivolge il primo pensiero a «tutti i bambini che hanno vissuto sulla pelle e nell’anima l’ultima guerra». Si sofferma sulle loro piccolo storie individuali, ben sapendo che da queste dipenderà il corso della Storia. Allo stesso modo, nel discorso pronunciato in memoria delle vittime del 7 ottobre 2023, ammette di piangere per «i giovani assassinati», per «il futuro che avrebbero potuto avere». La sua speranza (da cui deriva anche l’aperta opposizione al premier Netanyahu) è che Israele possa essere fondata «per la seconda volta», secondo una logica che escluda il ricorso a ogni discriminazione o, peggio, sopraffazione. In un altro dei testi compresi nel volume, Che cos’è uno Stato ebraico?, si interroga sul tradimento della «visione dei profeti e dei padri fondatori», rivendicando non casualmente l’attualità di una categoria biblica.
Grossman è uno scrittore, si dirà, le sue considerazioni non possono avere peso politico. Ma il punto è proprio questo: la pace, a differenza della guerra, ha bisogno di fantasia. A chi rivolgersi, allora, se non a quella singolare specie di profeti che sono appunto i poeti?