Gentile direttore,
sono una delle sorelle della professoressa Lidia Levi Fois, e ho letto con stupore e commozione la bella testimonianza di Alessandro Zaccuri “La mia prof e quel grazie mai detto” (“Avvenire” di sabato 15 luglio, ndr). Abbiamo avuto tante testimonianze da parte di ex allievi di mia sorella, ma questa, resa tanti anni dopo averla avuta come insegnante e a 10 anni dalla sua morte, mi ha particolarmente colpito. Vorrei però aggiungere che, alla fine, qualche cosa si è mosso nella “materialista dichiarata” (che era però stata una delle prime seguaci di don Giussani): noi sorelle ci alternavamo a casa sua nelle ultime settimane di vita (aveva un tumore al fegato) e il giorno del primo Angelus di papa Francesco ero io da lei. Quando le ho detto che volevo vedere l’Angelus, ha detto che voleva vederlo anche lei, perché questo Papa le piaceva. Il Papa disse che Dio ci aspetta sempre, io gliel’ho ripetuto e lei ha fatto un sorriso. È morta una ventina di giorni dopo, il primo venerdì del mese. Il giorno prima aveva fatto l’ultima lezione di letteratura greca a un gruppo di appassionati, scusandosi se li aveva fatti venire a casa e non li accompagnava alla porta. E la sera prima di dormire ha recitato un Padre nostro insieme ad un’altra mia sorella. C’è sempre speranza anche per i materialisti militanti, soprattutto quando sono persone rette, come sicuramente era mia sorella.
Marisa Levi Verona
Gentile professoressa Levi, il direttore mi mette a parte della sua lettera, che trovo a mia volta commovente. Nella testimonianza pubblicata da “Avvenire” ho raccontato quello che sapevo di sua sorella Lidia, cercando di saldare almeno in parte il debito di gratitudine che ho contratto nei suoi confronti. È successo che in tanti, pur non avendo conosciuto “la Fois”, hanno ritrovato qualcosa di familiare nella descrizione che ne ho fatto: ritengo che sia avvenuto a causa della rettitudine che rende esemplare la figura di un’insegnante (l’apostrofo, in questo caso, è intenzionale), ma anche per quell’ombra di riserbo che a volte impedisce l’eccesso di confidenza, senza per questo rendere meno profondo il rapporto tra le persone. Sua sorella parlava poco di sé e, in un certo senso, non c’è da stupirsi del fatto che non abbia voluto rivelare a noi studenti una parte così intima della sua storia (mi riferisco alla vicinanza con don Giussani). Più sorprendente è forse l’epilogo al quale allude la sua lettera. Ho sempre avuto grande rispetto della donna che ho conosciuto come “materialista dichiarata” e che mi ha trasmesso la passione per la letteratura come esperienza di complessità e di bellezza. Nei quarant’anni abbondanti che mi separano dall’epoca del liceo, mi sono persuaso che ci sia un terzo elemento da considerare, quello dell’intelligenza spirituale, in assenza del quale non si dà vera conoscenza della letteratura, né della realtà stessa. Credere, da ultimo, è una forma estrema di realismo, è l’ammissione che non tutto può essere spiegato o, peggio, ridotto all’apparenza. Non mi azzardo a immaginare che cosa sia accaduto alla fine nel cuore e nell’anima di sua sorella, ma mi piace pensare che nella preghiera recitata la sera prima di morire ci fosse tutta la sua storia, quella che mi illudevo di sapere e quella che invece ignoravo del tutto: il greco che ci insegnava in classe, l’aspirazione a un Regno di giustizia, l’invocazione del Padre, la presenza dolcissima del Maestro al cui cospetto noi tutti siamo sempre e soltanto apprendisti dell’amore. Grazie ancora, a lei e alla mia professoressa.