Il racconto per bambini maggiormente letto dai grandi, “Il Piccolo principe” di Antoine de Saint–Exupéry, è quello che critica più persuasivamente l’adulto che non sa guardare il mondo con gli occhi dei piccoli. Quando inizia a vedere come loro, scopre la prospettiva vera del bambino: stare di fronte alla realtà per come essa autenticamente è («essenzialmente» direbbe lo scrittore francese, raccogliendo la portata ontologica che il pensiero occidentale ha racchiuso in questo termine). Una “ingenuità” necessaria per ritornare alla “genuinità delle cose” che le chiacchiere degli adulti nel dibattito sulle grandi questioni della vita, dell’amore e dei figli sembrano avere perduto. Oltre all’eccezionale successo editoriale (quasi 140 milioni di copie in 253 lingue e dialetti), anche quello di una recente versione cinematografica conferma quanto la provocazione sull’adultocentrismo (o adultismo, coniato da Du Bois nel 1903) offerta da Saint–Exupéry continui a colpire nel segno una debolezza della nostra cultura.La querelle sul rapporto tra formazioni sociali non familiari e generazione o adozione di figli, riaccesa in vista di una legge italiana sulle “unioni civili”, testimonia quanto questa fragilità del pensiero adulto arrivi a condizionare il giudizio sui diritti esigibili e sui soggetti titolari di diritti in ambito familiare, procreativo ed educativo. L’adultismo giuridico, che vede negli interessi e nelle aspirazioni dell’adulto la misura di ogni rapporto tra le generazioni, porta a ritenere – di fatto, se non di principio – che i diritti dei minori abbiano minor diritto di essere riconosciuti nella società, come già denunciava nel 1929 il pediatra polacco Janusz Korczak che offrì la propria vita per accompagnare i bambini, ebrei come lui, deportati nel campo di sterminio di Treblinka. Una prevalenza dei diritti o delle aspettative dell’adulto, anche a scapito di quella dei diritti del bambino, che ricalca l’oblio di cui essi erano prigionieri nella cultura e nella società del mondo greco e romano antico. Alla “rivoluzione civile” che ha allargato l’orizzonte della res publica fino ad includervi quelli che prima erano invisibili e inaudibili – donne, bambini, schiavi, disabili e altri soggetti emarginati – ha contribuito decisamente il cristianesimo. Una rivoluzione antropologica, culturale, sociale e politica permanente quella dell’emancipazione dei “piccoli” e degli “ultimi” (che nella scala evangelica sono i “grandi” e i “primi”), inconclusa dopo duemila anni ma la cui direzione, con qualche battuta d’arresto o temporanea inversione di marcia in alcuni secoli e luoghi, è proseguita verso un riconoscimento e una tutela maggiore dei diritti dei più deboli e indifesi rispetto a quelli dei più forti e agguerriti.Pur concedendo, come i suoi fautori con insistenza sostengono, che la legge sulle “unioni civili” sia necessaria per «estendere i diritti a coloro che ne hanno diritto» (ammesso che siano realmente predicabili nell’ambito del nostro ordinamento costituzionale e non altrimenti già tutelati dalle norme vigenti), una siffatta legge non può contenere elementi giuridici che vanno in senso opposto, accarezzando con lo strumento dell’adozione – nella forma della stepchild adoption, cioè dell’adozione speciale del figlio del/della partner – i desiderata delle persone delle stesso sesso che convivono ma insieme non possono generare ed esponendo, fino a privarlo di ogni concreta protezione, il bambino a una “povertà genitoriale”: una deliberata, e per così dire programmatica, rimozione della figura del padre o della madre allo scopo di introdurre quelle dei “due papà” o delle “due mamme”.Ignorare i diritti elementari del bambino, quelli legati alla sua nascita (frutto dell’incontro tra una donna–madre e un uomo–padre), crescita ed educazione, è il caso serio dell’adultismo giuridico che nega di fatto il principio della «preminenza dell’interesse del minore» (favor minoris) pur affermato in punto di diritto, sacrificandolo all’esigenza di affermare la equiparabilità della convivenza delle persone omosessuali anche se è impossibile che essa si manifesti sul piano della generazione.
Il rischio, dietro l’angolo, è quello di un esperimento sociale sui bambini, dalle conseguenze non imprevedibili – che si distendono nel tempo e attraverso le generazioni – irresponsabile e, in questi termini, inammissibile in una società davvero civile. Qualunque quadro normativo si vada configurando per le relazioni tra persone dello stesso sesso al fine di garantire i diritti dei soggetti che le costituiscono, esso non può venire costruito su una prospettiva che svaluti il diritto fondamentale dei bambini già nati o che nasceranno a crescere, per quanto umanamente possibile, con il riferimento di un papà e di una mamma.