Non lo conosco, non so chi sia, ignoro come vivesse prima del giorno che gli ha stravolto l’esistenza. Però di una cosa sono sicuro: quelle frasi lui non le avrebbe scritte e non le scriverà mai. Parlo del poliziotto o, meglio, dell’agente di polizia ferroviaria che domenica scorsa davanti alla stazione di Verona ha sparato, uccidendolo, contro un giovane originario del Mali, che delirando aveva tentato di aggredirlo armato di coltello. La vicenda, come ormai tutti sanno, è diventata un caso politico nazionale. A scatenarlo un post pubblicato sui social da Matteo Salvini. «Con tutto il rispetto – ha scritto il vicepremier riferendosi al ragazzo africano – non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere». Si può discutere sull’ennesimo confine del cinismo superato a piè pari, sul diritto, che nessuno ha, di giudicare quale vita meriti di essere tutelata e quale no, sulla distinzione pretestuosa e arrogante di dividere il mondo in buoni e cattivi a seconda della provenienza e del colore della pelle. Ma non è questo il cuore del problema.
Il punto è che quelle due righe il poliziotto non le avrebbe scritte. Perché a lui, che probabilmente non lo conosceva neppure, l’uomo che ha ucciso senza volerlo mancherà. Terribilmente. Se lo troverà davanti agli occhi ogni giorno che gli resterà da vivere, popolerà le sue notti insonni, agiterà i servizi di vigilanza (se ne farà ancora), che gli verranno assegnati. E non c’entra il procedimento legale cui sarà sottoposto, è secondario persino stabilire se e quanto la sua risposta all’aggressione sia stata esagerata. Il fatto è che per la gente che sta nel mondo della quotidianità comune l’abisso di sofferenza più buio che ci possa essere non è tanto perdere la vita, quanto toglierla a un’altra persona. E hai voglia a ricevere abbracci, a incontrare psicologi, a cercare riparo tra gli amici. Il dolore magari si attenua, sfuma un po’ ma non passa. Resta lì appiccicato al cuore come un tatuaggio indelebile, come una cicatrice che se la sfiori appena senti un brivido freddo che parte dai piedi e arriva ai capelli.
No, quelle frasi l’agente di polizia non le avrebbe scritte. E infatti, dicono i testimoni, ha provato a rianimare il ferito, ha sperato fino all’ultimo che i suoi occhi chiusi fossero un modo per recuperare le forze, che presto si sarebbero riaperti. E invece no, purtroppo. Moussa Diarra, che aveva 26 anni, che era conosciuto da realtà di assistenza locale come la “Ronda della Carità” e la “mensa di San Bernardino”, che ultimamente aveva problemi con il permesso di soggiorno, che spesso si isolava disperato e dava di matto, non si è svegliato più. Ma con lui è calato il buio anche sulla vita di chi gliel’aveva strappata. Sono state scritte migliaia di pagine sulla sofferenza di chi uccide senza volerlo. E non capita mai di trovare narrazioni stile Rambo o film sul vecchio west. Quasi sempre sono storie di persone che dopo il fatto piangono, vomitano. O più spesso restano in silenzio, perché c’è un dolore che toglie le parole, che rende muti, che raduna tutte le domande in unico punto interrogativo che non però non sai formulare con il vocabolario di tutti i giorni: perché? Perché proprio a me?
No, quelle frasi il poliziotto non le avrebbe scritte. Perché la sua vita non sarà più la stessa, perché non potrà chiedere perdono a nessuno se non a Dio, cercando in Lui la forza di arrivare a perdonare sé stesso. Un punto di arrivo lontanissimo e difficile da conquistare. Anche se un tribunale lo assolverà, anche se lui ha ucciso svolgendo il suo dovere, anche se gli amici di sempre gli resteranno accanto, anche se qualcuno pregherà per lui, oltre che per la vittima della sua pistola.
No, quelle frasi il poliziotto non le avrebbe scritte. E noi vorremmo non averle lette mai. Però possiamo rovesciarne il senso. E dire che a noi, malgrado non lo conoscessimo, Moussa Diarra, mancherà. E ci mancherà il sorriso, che non sarà più spontaneo come prima di domenica, dell’uomo che gli ha sparato. Due persone agli estremi opposti che oggi la sofferenza avvicina fino a legare insieme. Nella speranza che, nella vita che sarà, possano stringersi in un unico abbraccio. Di misericordia.