giovedì 15 marzo 2018
Il Paese himalayano può essere un modello di sostenibilità? La via bhutanese al progresso è lontana dal materialismo e garantisce un livello di vita accettabile con 2.300 euro annui.
Un gruppo di studenti bhutanesi. Foto dell'archivio Epa/Ansa

Un gruppo di studenti bhutanesi. Foto dell'archivio Epa/Ansa

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Molti Paesi in via di sviluppo hanno come obiettivo quello della crescita economica, sovente dovendo però gestire una popolazione numerosa, risorse limitate e pressioni internazionali sul piano commerciale e strategico, mentre incontrano diverse difficoltà nell’avere un peso reale sul piano globale.

C’è invece una realtà, il Bhutan, che respinge tutto questo e, in controtendenza rispetto agli stereotipi, mira a restare per quanto possibile defilata sulle mappe avendo come solo obiettivo essere per lungo tempo ancora in cima all’indice di Felicità nazionale lorda (Fnl) che esso stesso, invidiato da molti, ha individuato e utilizzato a partire dal 1972.

Il Fnl deriva dall’analisi qualitativa e quantitativa di vari indicatori: benessere psicologico, uso del tempo, diversità culturale, economia, ambiente, condizione fisica, impiego, benessere sociale e situazione politica. Contrariamente al Prodotto interno lordo di cui si propone come alternativa, l’Indice può essere usato anche per determinati gruppi di popolazione.

La 'via bhutanese' al progresso resta oggi assai distante dal materialismo, garantendo un livello di vita accettabile con soli 2.300 euro di reddito procapite annuo, anche se non mancano aree di disagio sociale. Su tutto, l’impronta della fede buddhista lamaista e una monarchia che ha compiuto 110 anni nel 2017, guidata oggi da un sovrano progressista che ha rinunciato all’assolutismo senza rompere con la tradizione, ma che ha allentato solo di poco il controllo sul 25% di non buddhisti. Induisti, soprattutto, ma anche le poche decine di migliaia di cristiani ai quali le recenti aperture non hanno portato i risultati sperati in libertà di aggregazione e di pratica religiosa.

Per i pochi cattolici, le visite centellinate di sacerdoti dall’India sono ancora risultato di manovre al limite della clandestinità. Problemi poco pubblicizzati anche all’interno.

Il piccolo Paese himalayano (38,4 chilometri quadrati) ultimo al mondo a essersi dotato di una propria televisione nazionale al volgere del millennio, continua ad avere nei giornali il principale veicolo informativo, ma Internet è presente, come pure la telefonia cellulare. Solo, sono diversamente graduati nel mix quotidiano degli abitanti e nella scala dei loro interessi. Un medioevo tecnologico, quindi, quello bhutanese.

Una realtà moderna in abiti antichi (quelli d’obbligo per maschi e femmine, rispettivamente il 'gho' e la 'kira'), con strutture di comunicazione, trasporti, sanità, educazione che appaiono pratiche ma senza eccellenze o fronzoli, inserite in un contesto naturale, architettonico e in un modo di vita che potrebbe tranquillamente essere collocato all’inizio del XX secolo, quando la dinastia oggi regnante dei Wangchuk prese il controllo del Paese.

Come sottolinea il direttore del periodico in lingua inglese The Bhutanese, Tenzing Lamsang, «il Bhutan sta passando dall’epoca feudale a quella moderna, scavalcando quella industriale».

Così, i monaci alla questua in questo Paese di tradizione buddhista lamaista, che continuano a raccogliere rispetto e a volte venerazione, devono ora farsi da parte al passaggio di individui concentrati come altrove nel mondo sull’uso dello smartphone. Le due reti di telefonia cellulare attive hanno oltre mezzo milione di abbonati su 800mila abitanti e un terzo della popolazione ha una qualche forma di connessione a Internet. Un balzo tecnologico quasi interamente dovuto a investimenti e cooperazione stranieri, che può oggi usufruire di una produzione elettrica abbondante data la conformazione del territorio, ma anche necessario per la condizione di isolamento che vive il 'Paese del Drago'.

Il Bhutan non ha sbocchi al mare ed è stretto nella morsa di Cina e India, oltre che confinare con il Nepal con cui i rapporti sono tutt’altro che facili, in particolare dopo l’espulsione dal 1990 di almeno 100mila 'bhutanesi del Sud', ovvero immigrati dal Nepal in molti casi da generazioni che non avevano chiesto la cittadinanza entro il 1953 e che invece dell’agognata integrazione hanno 'ottenuto' l’uscita volontaria o l’espulsione verso il Paese d’origine e la sostanziale segregazione in campi profughi.

Un 'buco nero' nella storia del Paese, conseguenza anche del timore di assimilazione da parte dei vicini che ha incentivato però con altri fattori la 'svolta' del 2006, con l’abdicazione del re Jigme Singye Wangchuck e l’ascesa al trono del figlio Jigme Keshar Namgye Wangchuk e il passaggio indolore nel 2008 da una monarchia assoluta a una costituzionale in cui, fatta salva la facciata di abiti e comportamenti tradizionali, il Bhutan ha avviato una rapida modernizzazione.

Incentivando il turismo come forma eco-compatibile di finanziamento e come legame con il mondo, ma anche promuovendo la tutela del paesaggio. Arginato con una politica restrittiva degli ingressi e dei luoghi aperti agli stranieri il rischio di vedere scardinati modo di vita, cultura e quotidianità, le autorità hanno puntato su voci come 'conservazione ambientale', 'sviluppo sostenibile e equo', 'conservazione e promozione della cultura', 'buongoverno', quali elementi al centro delle politiche per sostenere l’indice di Felicità nazionale lorda.

«La tecnologia non è distruttiva, ma buona e può contribuire alla prosperità del Bhutan», è una specie di mantra fatto proprio dal primo ministro Tshering Tobgay, la personalità pubblica più seguita su Facebook con 25mila follower anche per il suo impegno ambientalista.

Oggi si calcola che 800 milioni di alberi coprano il 70,5% del territorio bhutanese con un manto forestale che è il più esteso tra i Paesi asiatici in rapporto alla superficie totale. Una cifra determinante nel rendere il Bhutan l’unica nazione al mondo con un’impronta di carbonio negativa. Lo scorso novembre il governo ha lanciato insieme al Wwf la campagna 'Bhutan for Life', iniziativa sostenuta da un sito interattivo (http://www.bfl.org.bt/), che in 14 anni vorrebbe portare l’interno pianeta al livello del piccolo regno asiatico e mantenerlo così nel tempo, consentendo alla stessa natura di assorbire il carbonio in eccesso.

«I problemi che il mondo deve affrontare oggi sfidano tutti noi allo stesso modo e le soluzioni a queste sfide devono venire da un vero sentimento di preoccupazione e attenzione verso gli altri, per ogni essere senziente e per le future generazioni», sollecita il 38enne sovrano attraverso Internet. D’altra parte, come ricorda il Wit Soontaranun, esperto thailandese tra i pochi non-bhutanesi coinvolti nella definizione e promozione dell’iniziativa, «i gas effetto serra non hanno bisogno di un passaporto per attraversare le frontiere. Di conseguenza se risolviamo il problema nel mondo sarà di beneficio anche per noi. In Bhutan proteggiamo l’ambiente naturale ma gli alberi ci proteggono con un abbraccio che assorbe ogni anno sei milioni di tonnellate di diossido di carbonio, quattro volte quanto emesso nel Paese».

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