giovedì 29 giugno 2023
La scomparsa del «centro» politico è sintomo di un passaggio d’epoca. L’analisi del direttore di «Civiltà Cattolica»
La paura degli altri e del futuro nella crisi della liberal-democrazia
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Esce oggi il quaderno 4153 della «Civiltà Cattolica». Tra gli altri articoli del quindicinale dei Gesuiti, «La non violenza e la tradizione della guerra giusta: verso il futuro», di padre David Hollenbach, «A 80 anni da “L’essere e il nulla” di Jean-Paul Sartre», di padre Giovanni Cucci, «La sinodalità e gli “Esercizi spirituali di sant’Ignazio», di padre Paul Rolphy Pinto, e «Enzo Jannacci: l’importante è esagerare», di padre Claudio Zonta. Anticipiamo «Il punto» del direttore padre Antonio Spadaro su «La crisi del modello liberal-democratico».

Secondo molti analisti politici, l’incubo che si aggira per l’Europa di questi tempi sarebbe la definitiva scomparsa del «centro», cioè delle forze politiche centriste. Le difficoltà incontrate da numerosi progetti che si richiamano alla liberaldemocrazia derivano anche dalla difficoltà a fare i conti con l’evidenza di un mondo che cambia velocemente. Le categorie politiche del passato sembrano non reggere più, sia in termini di interpretazione sia in termini di proposta.

Con «liberal-democrazia» si intende sostanzialmente il sistema che sa combinare il principio liberale dei diritti individuali con il principio democratico della sovranità popolare. Il trentennio dei boomers – cioè il periodo dell’esplosione demografica (baby boom), parallelo al boom economico registrato tra il 1946 e il 1964 – è per eccellenza l’epoca liberal-democratica. Essa si è qualificata per l’interpretazione data al significato dei due poli, quello liberale e quello democratico, e per la capacità di tenerli insieme, collegandoli in una visione che ha saputo tener conto dell’uno e dell’altro. La socialdemocrazia europea ha finito con l’aderire a questa visione, spingendo l’equilibrio verso un welfare inclusivo, esteso: nell’epoca liberal-democratica e social-democratica si sono tenuti insieme le garanzie sociali e i diritti individuali, sostituendo lo stato sociale al vecchio laissez faire, la massima che fu usata dai fisiocrati e dai primi liberisti per ottenere l’abolizione di ogni vincolo all’attività economica.

Ecco: è proprio questa tensione liberale e democratica – dove democrazia ha significato di stato sociale – a essere in crisi. La questione, dunque, non può porsi in termini di qualità politiche dei leader, o di esistenza di uno spazio politico adeguato, che si chiami «terzo polo» o con altro nome. Per cogliere le ragioni della difficoltà liberal- democratica occorre partire non dalle idee, ma dalla realtà che muta. Come sta mutando?

Crisi dell’equilibrio liberal-democratico

La nostra realtà non è più quella degli anni dei boomers, gli anni del trionfo liberal- democratico. Quella realtà è stata fotografata, ad esempio, da Andrea Graziosi, che in Occidenti e Modernità. Vedere un mondo nuovo (Bologna, il Mulino, 2023) afferma sostanzialmente che l’Europa del boom economico è stata segnata da alcuni fattori chiave che si aggiungono all’esplosione demografica e al conseguente aumento dei giovani e dell’energia diffusa nella società: la rapida crescita economica, sostenuta dalla demografia e dalla grande mobilità umana da campagne a città; un veloce aumento dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e dell’istruzione; la crescita dei diritti degli individui e delle donne; una vivacissima produzione ideologica come fattore dinamico; e il predominio dell’Europa e dell’Occidente sul resto del mondo.

La fortissima protesta popolare francese contro la riforma pensionistica voluta da Macron, che sposta da 62 a 64 anni il limite anagrafico per andare in pensione – nonostante robuste eccezioni per chi svolge lavori usuranti –, indica chiaramente che il cuore del modello socialista alla Mitterrand – andare in pensione a 60 anni – è ancora amato. Non c’è più però il boom demografico: anzi, c’è la decrescita. E la crescita dei diritti dell’individuo si è affiancata al progressivo sfarinamento dei diritti sociali, quali occupazione non provvisoria, la pensione a 60 anni, l’assistenza sanitaria e così via.

La stessa logica della crescita continua si è scontrata con altri e noti problemi, a partire da quelli ambientali, che per alcuni studiosi hanno creato anche un timore psicologico tra gli europei: quello della apocalisse ambientale. Contemporaneamente, però, il prodotto dalla nuova aspettativa di vita condurrebbe al rifiuto della propria limitatezza, portando sempre alla non generatività, due dei punti più interessanti del testo di Graziosi. Ma sono l’allungamento delle aspettative di vita e la riduzione della fertilità le cause strutturali più rilevanti della crisi del modello liberal-democratico. Si poteva pensare di porvi riparo con i migranti, più o meno forzati, che abbondano, ma rendere società complesse autentiche società omogenee è estremamente complicato, come dimostrano i fallimenti dell’assimilazionismo e del multiculturalismo e le resistenze opposte all’interculturalità.

Così, progressivamente l’uomo europeo si è chiuso dentro di sé; i suoi diritti sociali in difficoltà sono stati sostituiti dalla richiesta di nuovi diritti individuali. La tensione vitale tra i due poli della visione liberal-democratica non ha saputo preservare l’equilibrio.

Neoliberismo e paura

Ma il fascino del modello liberal-democratico – posto fisso e pensione a 60 anni – rimane molto vivo, pur non essendo in queste condizioni sociali difendibile, come ha fatto presente Macron. Perché? La riduzione della popolazione, l’allungarsi dell’aspettativa di vita, la delocalizzazione, che consente di produrre altrove a costi più bassi, sono le cause apparentemente separate dell’emergere di un mondo nuovo, sostanzialmente non più liberal- democratico, ma neo-liberista. In un mondo nel quale scarseggiano sia il vecchio sia il nuovo proletariato, la pensione a 60 anni diviene impossibile, la delocalizzazione indispensabile. Si può dunque vedere nel neo-liberismo, incarnato dallo slogan « La società non esiste, esiste solo l’individuo », il motore che ha tenuto in marcia l’europeo, che non vede più le lotte dei poveri, ma la rabbia degli impoveriti, e anche degli impauriti.

Dominique Moïsi, nel suo interessante Geopolitica delle emozioni (Milano, Garzanti, 2009), ha saputo cogliere l’importanza della paura nella nuova geopolitica. Egli ne ha riassunto così l’emergere all’inizio del nuovo millennio: l’Asia, la terra della speranza, aveva ancora la certezza che il suo futuro sarebbe stato migliore di quello di ieri e di oggi; i Paesi islamici, terra di umiliazione, volevano liberarsi del presente; l’Occidente, terra di benessere, temeva che i suoi privilegi, o le sue conquiste, stessero svanendo. Il 2011 è arrivato con la straripante piena della speranza araba: la speranza di potersi scrollare di dosso il peso opprimente di regimi dispotici, saccheggiatori, e unirsi così al resto del mondo. Ma la paura europea ha impedito di cogliere come questa speranza mediorientale fosse il prodotto del suo modello e, dopo il «tradimento» della «primavera araba», ha temuto che i fuggiaschi dai regimi potessero ulteriormente restringere il residuo benessere.

Le lotte dei poveri sono diverse dalle rabbie degli impoveriti, e il modello liberaldemocratico si è dissolto in quello della fortezza assediata, introiettando la cultura della paura. Ecco perché l’europeo impaurito, ad esempio, non sa vedere nei migranti quella forza-lavoro di cui il suo stato sociale avrebbe bisogno per evitare lo smantellamento: se non si sanno fare più figli, li si adotta; ma, per adottare, occorre avere una visione inclusiva, espansiva, non neo-liberista. La difesa di sé tra privilegi che sfumano aggrava la difficoltà nella quale ci si trova, non la attenua.

Non sarà la paura un problema radicale del modello liberal-democratico?

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