Una donna ucraina protesta contro la partecipazione di atleti russi e bielorussi alle Olimpiadi di Parigi 2024 - Reuters
Il testo che segue è una sintesi dell’intervento del professor Agostino Giovagnoli alla giornata di studio “Chiesa e cattolici tra guerra e pace” organizzata in Università Cattolica a Milano dal Centro di ricerca World History e dalle Facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, Lettere e filosofia, e dal Centro di ricerca sulle relazioni interculturali.
Pacem in terris. Sessant’anni fa usciva l’enciclica di Giovanni XXIII destando sorpresa e entusiasmo in tutto il mondo. Tutto di quell’enciclica sembrò nuovo e la si enfatizzò come il primo documento pontificio dedicato esclusivamente alla pace e come il primo che si rivolgeva a tutti gli uomini di buona volontà anche se non era così. Novità, tuttavia, ce n’erano davvero molte e una in particolare era importantissima: l’enciclica escludeva che, nell’era atomica, la guerra potesse portare giustizia. Ormai da tempo la Chiesa insegnava che la guerra era un male, ammettendola però come legittima difesa e per ripristinare un diritto violato. Ma Giovanni XXIII evidenziò che il rapporto radicalmente squilibrato che si era creato tra mezzi (arma atomica) e fine (ripristinare la giustizia) rendeva ormai impossibile parlare di “guerra giusta”.
La guerra era diventata uno strumento impraticabile, controproducente, irrazionale e, dunque, da eliminare. Era quello che centinaia di milioni, forse miliardi di uomini e donne volevano sentir dire da una così alta autorità morale. Non solo: era anche quello che i massimi leader politici del tempo, Kennedy e Chruscev, volevano che qualcuno dicesse per affrontare più facilmente le resistenze interne a un accordo con il “nemico”. Sembrò che il mondo parlasse con una voce sola, quella del Papa. Nella Pacem in terris, la novità dei contenuti scaturì da una novità di approccio. Quel pronunciamento pontificio non si fondò solo sul Vangelo e sulla Tradizione ma anche sulla lettura dei segni dei tempi: si fondò cioè anche sull’analisi della realtà storica. Ciò segnava un distacco da una dottrina della Chiesa basata sulla lettura teologica e provvidenzialistica della storia che, pur giudicando la guerra un male, la considerava un castigo di Dio e perciò ineliminabile. Con l’enciclica giovannea, la Chiesa non ha cambiato nulla del messaggio evangelico di cui è custode e annunciatrice, ma l’enciclica ha mostrato che anche sui temi cruciali della guerra e della pace il Vangelo si incarna in modi sempre nuovi e risuona in forme inedite nei diversi contesti storici.
Oggi la guerra appare a molti non solo legittima, ma anche utile e, a suo modo, razionale. È piuttosto la pace che sembra doversi giustificare. Quando scoppiò nel 1991 il primo conflitto dopo la caduta del Muro di Berlino, la Guerra del Golfo, si disse che “sarebbe stata l’ultima” o che era “necessaria per evitare più rovinose guerre future”. Ci fu allora chi denunciò giustamente l’ipocrisia di tali affermazioni, ma oggi, per certi aspetti, ci sarebbe motivo di rimpiangerle: riconoscevano implicitamente la pace come un principio da far prevalere, anche se servivano a coprire scelte di segno opposto. Dietro quell’ipocrisia, infatti, c’erano molte cose importanti: il ricordo delle due guerre mondiali, la continuità con un inedito sistema di organizzazioni internazionali per salvaguardare la pace, la volontà di evitare ad ogni costo la Terza guerra mondiale… Che la guerra andasse bandita era ancora una convinzione diffusa nel 2003, quando milioni di persone manifestarono in tutto il mondo contro quella in Iraq. Poi qualcosa si è rotto e la guerra è diventata “normale”. Se oggi nessuno dice che la guerra in Ucraina sarà l’ultima o che è necessaria per evitarne altre (e nessuno lo ha detto neanche per quelle in Siria, in Yemen, in Georgia…) è perché dopo il 1989 è progressivamente venuta meno l’architettura morale, politica, istituzionale costruita dopo la Seconda guerra mondiale.
Ciò significa che il Vangelo della pace non interpreta più il senso della storia? È vero il contrario: se non si avverte più l’urgenza della pace è perché non si leggono più i segni dei tempi e non si interroga a fondo la storia in cui siamo immersi. La lezione di Giovanni XXIII è più che mai attuale mentre infuria la guerra in Ucraina e in altri luoghi del mondo. Anche oggi c’è un Papa che annuncia insistentemente il Vangelo della pace, in piena continuità con lo spirito giovanneo. Ma interrogarsi sulla storia del nostro tempo non è responsabilità solo del Papa. I sostenitori della pace non dovrebbero solo sottolinearne (giustamente) l’urgenza, ma contribuire anche a costruire una solida cultura di pace intessuta di sapere storico. Quella del tempo in cui è stata scritta la Pacem in Terris sapeva unire speranza escatologica e realismo storico – basta ricordare Giorgio La Pira – ed è stata capace di mostrare in modo convincente che la guerra non era più ragionevolmente utilizzabile.
Anche oggi c’è bisogno di uno sforzo simile. Chi crede nella pace non può disinteressarsi del compito di esplorare – insieme a tutti gli “uomini di buona volontà” - le motivazioni razionali, concrete, stringenti e cioè le ragioni storiche per cui è urgente mettere fine alla guerra in Ucraina e ovunque. Non fanno ovviamente fatica a leggere i segni dei tempi i milioni di profughi dall’Ucraina, i parenti delle vittime dell’aggressione russa, quanti vivono quotidianamente sotto le bombe… Ma se chi soffre per la guerra intuisce più di altri che il futuro dell’umanità passa per la strada della pace, occorre che ciò sia compreso anche da chi vive lontano dalla guerra e, soprattutto, dalle classi dirigenti di tanti Paesi che, direttamente o indirettamente, possono contribuire alla pace. Insomma, anche dai Kennedy e dai Chruscev di oggi e, soprattutto, dai loro più modesti epigoni.
Se la minaccia atomica non fa più paura come sessant’anni fa – ma il pericolo delle armi nucleari è tutt’altro che scomparso - è drammaticamente reale il rischio di una conflittualità sempre più diffusa e devastante, dall’Europa al Pacifico, dal Medio Oriente all’Africa. Molti non capiscono che la guerra produce sempre esiti imprevedibili, malgrado lo si sia visto chiaramente in Iraq, in Afghanistan e in molti altri luoghi. Ma è nell’interesse di tutti impedire che il mondo precipiti verso esiti catastrofici e occorre una cultura che metta chiaramente in luce i molteplici motivi - umani, politici, economici… – di tale interesse. Capace cioè di svelare l’irrazionalità dell’indifferenza. Indubbiamente, la prevalenza di un pensiero unico che oggi imprigiona popoli ed élites, basato sull’interesse immediato, sulla minaccia della violenza, sulla logica della contrapposizione bipolare è solo una delle cause del ricorso sempre più frequente alla guerra. Ma è una causa che riflette tutte le altre e una cultura diversa è essenziale per trovare quella pace che oggi si fa fatica persino a immaginare.