Un ritratto di Alessandro Zaccuri
Ci sono incontri che cambiano la vita. A volte lo si capisce subito, in altri casi serve del tempo. Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori italiani di raccontare in prima persona ad “Avvenire” le ragioni di una relazione che ha rappresentato una tappa significativa nella loro vita, perché ha suggerito un cambio di direzione, ha fornito la conferma della bontà di un percorso, ha portato un modo nuovo di guardare alle cose di tutti i giorni.
Avrei dovuto ringraziarla prima: non soltanto adesso, dopo la sua morte. Avrei dovuto accorgermi prima dell’importanza che ha avuto per me. È stata una delle mie insegnanti, non la prima che mi ha formato (suor Giannina Cusaro, amatissima maestra delle elementari) e neppure l’ultima (l’amica Mirella Ferrari, con la quale mi sono laureato all’Università Cattolica). A loro sono riuscito a esprimere gratitudine, mentre con lei sono mancate occasione e consapevolezza. Quando ripenso al nostro congedo, rivedo due persone che avrebbero potuto dirsi di più e invece sono rimaste lì, sul filo dell’imbarazzo. Avrei dovuto ringraziarla prima, mentre abitava l’unico mondo – questo – nel quale lei credeva: il mondo dei fatti, della storia, della realtà che il pensiero è chiamato a modificare. Si chiamava Lidia Levi Fois ed è stata la mia professoressa di latino e greco nel passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Il liceo era il Tito Livio di Milano, gemmazione del più noto Manzoni, che dalla sua sede in via Orazio non si è mai mosso, mentre noi del Tito Livio, sezione distaccata in corso di emancipazione, peregrinavamo da via Ariberto – vicino alla chiesa di San Vincenzo in Prato – a piazza Mentana, fino a trovare pace lì a due passi, in via Circo, in un austero edificio teresiano dal quale la scuola non si è più spostata.
"La Fois”, come la chiamavano gli studenti, era l’insegnante del triennio, diversissima dalla collega che la precedeva nel biennio. Entrambe erano note per la loro severità, che si esprimeva però in maniere e con finalità pressoché opposte. In quarta e in quinta ginnasio era tutto un mandare a memoria declinazioni e paradigmi, con rarissime concessioni al piacere della lettura. Perfino I Promessi Sposi erano ridotti a una questione di sintassi da analizzare, ma questo non ha impedito che il romanzo diventasse uno dei libri della mia vita. Arrivati al liceo, il panorama cambiava, anche dal punto di vista dei riferimenti ideali. L’insegnante del ginnasio era una cattolica già avanti negli anni e guardava con intransigente sospetto alle novità che maturavano in quella stagione di tumulto. Non posso averne la conferma, ma ho l’impressione che la sua insistenza su una grammatica fatta di regole più che di eccezioni fosse uno stratagemma per mettersi al riparo, se non addirittura un progetto educativo per mettere al riparo noi: adolescenti ignari, creature minacciate dalla droga e dalla televisione, dalle Brigate Rosse e dalle radio libere, dai fumetti e dalle conseguenze del rapimento Moro.
Al liceo ci aspettava la Fois. Materialista dichiarata, comunista militante, figura di spicco (ma questo l’ho scoperto dopo) nell’organizzazione dei cosiddetti “insegnanti democratici”. Veniva da una famiglia ebraica, nella quale si praticava il culto dello studio. Nelle rare circostante in cui raccontava qualcosa di sé, ci riferiva delle abitudini complementari sue e della sorella, docente alla Bocconi. Una delle due stava sui libri fino alle cinque del mattino, l’altra si alzava a quell’ora per mettersi all’opera. « In casa dicevano che ci bastava un letto in due», ripeteva accennando un sorriso. Diventava seria, invece, quando doveva ammettere di essersi laureata in corso, sì, ma nella sessione autunnale. Una decisione che aveva creato scompiglio tra i parenti, nessuno dei quali era mai andato oltre la sessione estiva. « Ma io ero stata sei mesi a studiare tedesco nella Foresta Nera – si giustificava in tutta franchezza –, altrimenti Untersteiner non mi avrebbe dato la tesi». Per qualcuno di noi “l’Untersteiner” era l’editore e traduttore di tanti classici greci, un nome da leggenda al quale faticavamo ad attribuire uno stato di effettiva storicità. Per la Fois, a quanto pareva, l’Untersteiner era stato quello che la Fois era per noi: qualcuno da rispettare e, all’occorrenza, da temere.
Nelle sue lezioni non dava niente per scontato, tanto meno nelle interrogazioni, che erano le “interrogazioni programmate” di allora, contestatissime da quanti, a partire dai genitori, confidavano e talvolta ancora confidano nella pedagogia del tranello. E interrogazioni di gruppo, per di più, insidiate dallo spettro del famigerato “voto politico”. All’atto pratico, erano esami universitari in miniatura, ai quali ci si presentava preparati per tradurre a vista una corposa quantità di testi originali e per discutere su due o tre libri. In questo modo noi sedicenni ci trovavamo a leggere saggi accademici sulla questione omerica e sullo sviluppo della lingua latina, studi antropologici sui rapporti di parentela nelle società tribali e i titoli più recenti di un innovatore come Jean-Pierre Vernant. Poi, un giorno, la Fois ci consigliò il capitolo sull’Odissea in Mimesis di Erich Auerbach e quel giorno – questo lo so per certo – il mio sguardo sul mondo cambiò per sempre.
Mi sono appassionato alla letteratura latina del Medioevo grazie ad Auerbach e ho fatto la conoscenza di Auerbach grazie a Lidia Levi Fois, la mia insegnante agnostica e marxista, che non nascondeva il dissenso rispetto a quelle che erano, già allora, le mie convinzioni, ma non lasciava che l’ideologia inquinasse il suo giudizio. È andata così anche l’ultima volta che ci siamo visti, nelle prime settimane del 2009. Adesso ero io a tenere una specie di lezione e lei era venuta ad ascoltarmi. Non era cambiata molto dal 1982, l’anno della mia maturità. Non alta, gli occhi grigi, la timidezza che poteva renderla aggressiva. Sinceramente, non penso che la mia interpretazione del Doctor Faustus di Thomas Mann l’avesse convinta: troppo retroterra teologico, troppa insistenza su quell’Aldilà nel quale lei fieramente non credeva. Alla fine della serata ci salutammo con impaccio. Di sicuro la ringraziai, ma non abbastanza, non per quello che davvero mi aveva insegnato: la bellezza rigorosa del metodo, la lealtà nelle differenze, la percezione della complessità come elemento vitale e non come ostacolo.
Quando ripenso a lei, mi torna in mente un episodio che riguardava suo figlio. Il bambino aveva l’abitudine di andare a vedere i cartoni animati da un coetaneo che viveva nello stesso condominio, solo che l’amico si era preso una malattia infettiva e l’appartamento di là dal pianerottolo risultava inaccessibile. Il piccolo era triste, perché avrebbe perso un bel po’ di puntate. « Ma guarda che i cartoni puoi vederli anche da noi», l’aveva rassicurato la madre. «No, la nostra tv non li prende», aveva risposto sconsolato il figlio, probabilmente cresciuto con una dieta mediatica a base di notiziari, dibattiti politici e film d’autore. Pochi minuti dopo, davanti al televisore sintonizzato sul suo programma preferito, il bambino aveva dovuto ricredersi. Forse è così per tanti, che pensano non esista quello che non vedono, o pensano che non sia per loro: che non valga la pena di provarci. Nonostante tutto, in modo misterioso, sono proprie queste le persone che sanno aprire gli occhi agli altri. E di un dono tanto grande, troppo spesso, nessuno li ringrazia.
L'autore
Alessandro Zaccuri è nato a La Spezia nel 1963, vive a Milano da oltre mezzo secolo e dal 1989 scrive su Avvenire, di cui è stato a lungo inviato culturale. Narratore e saggista, ha tra l’altro pubblicato un libro dedicato alla memoria della madre (Nel nome, NNE) e i romanzi La quercia di Bruegel (Aboca), Il signor figlio, Lo spregio e Poco a me stesso (tutti in catalogo da Marsilio). Suoi racconti sono presenti in numerose antologie, tra cui Anime (San Paolo). Tra le sue curatele, un’antologia di lettere di Alessandro Manzoni (Io ti ho a scrivere cose sì strane, L’Orma). Dal 2022 dirige la Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
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