Perché i poeti nei tempi della povertà?
Friedrich Hölderlin, Pane e vino
«Stattene pure nei tuoi incantesimi, nelle tue infinite magie! Forse potrai giovartene, forse potrai far paura! Coloro che sezionano il cielo ti aiutano, quelli che scrutano le stelle, che ogni mese ti pronosticano che cosa ti capiterà... Così sono diventati per te gli aruspici con i quali ti sei affaticata fin dalla giovinezza. Uno dopo l’altro barcollano, nessuno ti viene in aiuto» (Isaia 47, 12-15). Il Secondo-Isaia, in questo bellissimo capitolo di profezia poetica, annuncia la distruzione di Babilonia. La sua superbia e il suo imperialismo («Tu che pensi nel tuo cuore: io e nessun altro» 47,8) la stavano conducendo alla rovina. Alla radice di questo imminente crollo non c’è solo la hybris tipica di tutti gli imperi, né soltanto l’idolatria che nei capitoli precedenti il profeta aveva messo al centro della sua disputa. Babilonia sta per «scendere nella polvere» (47,1) anche a causa della sua scienza e della sua grande conoscenza: «La tua sapienza e il tuo sapere ti traviano» (47,10). Sapienza e sapere non sono un male né un peccato, ma una ricchezza e un bene. Perché anche questi beni la stanno traviando?
Quando Israele durante la deportazione conobbe dal di dentro la cultura babilonese, non fu affascinato e tentato soltanto dai suoi molti dèi potenti e visibilissimi, che rischiavano di prendere il posto del loro Dio diverso, unico e invisibile. Anche la cultura e l’intelligenza dell’impero neo-babilonese erano per Israele molto seduttive – e quel popolo culturalmente elevato e spirituale lo avvertiva in un modo particolarmente forte. Quella straordinaria conoscenza degli astri, della matematica, la ricca letteratura e i sofisticati miti, gli incantesimi e gli oracoli, "incantavano" anche le migliori menti di Israele.
La polemica anti-idolatrica non poteva essere sufficiente per controllare questa attrazione e questo fascino, perché l’anima più vera e sapiente del popolo intuiva che in quella scienza e in quella conoscenza c’era qualcosa di buono e vero, che non erano stupide come gli idoli e le statue.
I babilonesi iniziarono l’osservazione sistematica delle stelle, della luna, dei pianeti. Scrissero almanacchi, raccolsero e catalogarono "scientificamente" moltissimi dati sui corpi celesti. Furono gli inventori dello zodiaco, dei suoi 12 segni, e della partizione del cielo in sfere e costellazioni («coloro che sezionano il cielo»). Su questa base empirica e razionale furono capaci di prevedere le eclissi lunari e l’orbita di Giove (il loro dio Marduk), con un avanzatissimo calcolo dell’area di un trapezio (Science, 29 gennaio 2016). Ciò che a noi oggi appare come superstizione e cultura anti-scientifica – oroscopi, divinazioni, interpretazioni dei sogni... – duemilacinquecento anni fa erano la forma più razionale per tentare di dare un ordine al caos. Erano strumenti avanzatissimi per dominare un mondo e un cielo che erano totalmente insondabili nelle loro leggi fondamentali di movimento.
Non avremmo molti racconti biblici (e non soltanto i primi tre capitoli della Genesi o il diluvio) senza l’incontro con Babilonia, che è entrata profondamente nella tradizione e nel codice simbolico della Bibbia. I profeti dell’esilio, e tra questi il Secondo-Isaia, furono severi con Babilonia, con la sua religione e con la sua cultura, perché assistevano alla loro penetrazione nel cuore del loro popolo che tentava con fatica di salvarsi dall’assimilazione – quasi sempre la forza delle grandi critiche dipende dal potere seduttivo delle persone e delle idee che critichiamo.
In questo capitolo del libro di Isaia troviamo, forse per la prima volta nella Bibbia, il riconoscimento che la forza e la supremazia di un impero nemico non dipendevano soltanto dall’esercito e dall’economia, ma anche dalla sua scienza e dalla sua cultura. Il Secondo-Isaia, nella accurata scelta delle parole e delle immagini della sua poesia, mostra di conoscere le innovazioni astrologiche/astronomiche dell’impero dominatore. Sapeva che la scienza e la tecnica facevano parte della vocazione di Babilonia, erano il suo "genio" («Ti ci sei affaticata fin dalla tua giovinezza»). Non ne fa oggetto di satira, non la ridicolizza come aveva fatto con le statue dei suoi dèi. La prende sul serio, e a partire dal riconoscimento di questa potenza scientifica e intellettuale offre la sua interpretazione della sventura che stava per abbattersi su quella superpotenza: «Tu dicevi: in eterno io sono, Signora per sempre. Non hai pensato alla fine» (47,7). L’errore più grave che il profeta vede in Babilonia è la mancanza della coscienza della precarietà del proprio successo e potere, e quindi l’emergere del delirio di onnipotenza e di eternità che le impediva di "pensare alla fine".
E non è da escludere che provasse anche un certo dolore nel vedere una sì alta civiltà avviarsi verso la rovina – i profeti non sono felici per le sventure che annunciano, e sono anche capaci di soffrire per il contenuto della propria profezia: non sono i proprietari delle parole che dicono.
In questi versi del Secondo-Isaia possiamo trovare, allora, un insegnamento di portata più generale. Dalla storia sappiamo che gli imperi iniziano la loro decadenza mentre sono nell’apice del successo. La grandezza, la forza, le conquiste finiscono per auto-divorare i grandi, i forti e i conquistatori, se e quando non sono capaci di fermarsi prima di superare il "punto critico" che si trova sul vertice di una parabola che separa il massimo successo dall’inizio del sentiero che li condurrà verso la loro fine. Riuscire a vedere questo punto critico è estremamente difficile perché coincide con il punto del massimo splendore. Il grande successo, soprattutto quando è di tipo intellettuale o sapienziale, produce l’innamoramento per il successo generato dai propri talenti. I genitori si innamorano del proprio figlio, fino a divorarlo per il troppo amore diventato incestuoso. Molte decadenze di persone e di comunità, dotate di grandi talenti intellettuali e/o spirituali, iniziano proprio da questa carenza di castità, che li porta a consumare dapprima i frutti del proprio successo, poi l’albero, e infine la sua radice.
È questa un’espressione particolare e originale della cosiddetta legge della maledizione delle risorse, che scatta tutte le volte che le risorse di ieri diventano un ostacolo alla creazione delle risorse di domani. Perché le molte rendite dei patrimoni iniziano, progressivamente e inconsapevolmente, a corrodere l’impegno e le motivazioni per generare nuove ricchezze. Questa tipica maledizione si applica su ogni tipo di risorse, ma è più difficile da individuare e prevenire quando si ha a che fare con risorse immateriali e spirituali. È semplice capire, ad esempio, che il molto petrolio può diventare la maledizione dell’economia di uno Stato, o che la ricchezza accumulata dai genitori possa diventare maledizione per i figli; meno semplice è accorgersi in tempo che il mio talento sta consumando la mia creatività, o che la ricchezza spirituale e carismatica di un fondatore di comunità possono diventare "maledizione delle risorse" per la generazione successiva.
Uno dei compiti, preziosissimi, dei profeti è la loro capacità di vedere in tempo il punto critico e quindi l’avvicinarsi della "maledizione delle risorse". I profeti pre-vedono perché vedono prima degli altri l’approssimarsi di questo tipo di crisi, ne sanno cogliere i segnali deboli che sfuggono a tutti gli altri, perché si manifestano nei tempi dell’abbondanza e della prosperità quando nessuno ha voglia di dar retta agli avvertimenti dissonanti dei profeti. I tecnici, i futurologi, i sondaggisti, non sono capaci di vedere il punto critico dell’inizio di questa tipica maledizione delle risorse, perché sono tutti interni e funzionali al sistema, sono suoi tecnici prodotti e pagati per spingere avanti il successo e il potere.
Il profeta non è un tecnico del futuro, non è uno scenarista (nuova professione del nostro tempo insicuro che vorrebbe dominare il futuro a scopo di lucro). È invece ben cosciente che il tempo non è nelle sue mani, sa che il futuro non è sua proprietà privata. Ma, per vocazione, vede questi valori soglia invisibili nelle splendenti traiettorie di sviluppo. E lo grida, pur sapendo di non essere ascoltato da chi lo bolla come pessimista, disfattista, profeta di sventura, da chi lo equipara ai tecnici e agli aruspici – ogni profeta sa che il riduzionismo della profezia alla semplice previsione significherebbe la sua morte. I primi nemici delle profezie di sventura sono tutti quei falsi profeti che si arricchiscono predicendo un futuro sempre più glorioso e senza fine.
Nel nostro tempo della scienza e della tecnica, invasi come siamo da industrie produttrici di quantità impressionanti di previsioni finanziarie, politiche, climatiche, nessuno vede e capisce i profeti, nessuno vede e capisce i poeti. E così senza profeti siamo semplicemente destinati a essere mangiati dalla perfezione delle nostre previsioni: «Non salveranno se stessi dal potere delle fiamme» (47,14).
I tecnici funzionano bene per le previsioni semplici e, se sono bravi, ci aiutano a prevenire le piccole crisi. Ma quando si tratta di vedere i segni di un passaggio d’epoca, di individuare l’arrivo di una crisi grande, la tecnica delle previsioni non aiuta. Ci sarebbe bisogno solo della profezia. L’antica Babilonia, e le babilonie di ogni tempo incluso il nostro, non si salvano perché non hanno i profeti: li hanno uccisi o ridotti a professionisti dell’impero.
In genere, non è un male che gli imperi decadano e cadano. Potremmo anche leggere nel superamento inconsapevole di questo invisibile "punto critico" un meccanismo provvidenziale intrinseco alla storia umana. Più complesso è il discorso per le persone e per le comunità, dove qualche volta la decadenza potrebbe essere evitata se avessimo coscienza dell’esistenza della "maledizione delle risorse". E se i profeti fossero più ascoltati, anche quando sono profeti di sventura, perché nella profezia delle sventure sta la sola speranza di poterle evitarle: «Se avessi prestato attenzione ai miei comandi, il tuo benessere sarebbe come un fiume, la tua giustizia come le onde del mare» (48,18). Nelle grandi crisi non c’è povertà più grande della povertà di profeti.
l.bruni@lumsa.it