A cinquantadue anni mio padre cambiò lavoro. Frequentò un corso abilitante e andò a insegnare educazione musicale in una scuola media: a Nuova Ostia. Era il 1974. Nelle strade di quel simulacro di quartiere – all’epoca un’escrescenza mal tollerata di Ostia Lido – vi erano buche profonde mezzo metro, pozze di fango ovunque, desolazione, miseria. Vide i ragazzi soli, abbandonati nelle strade. Prese servizio nella scuola. Un complesso di aule ricavate nell’edificio di una vecchia colonia in disuso, opera del Ventennio fascista, mutata in luogo pedagogico dopo che dei cittadini – genitori di alunni della scuola dell’obbligo senza banchi – l’avevano occupata.
Pretendevano aule, banchi, maestri e professori per i loro figli. Il quartiere di Nuova Ostia – oggi stigmatizzato come regno della mafia – fu popolato artificialmente, intorno al 1970. Il Comune di Roma acquistò diversi immobili costruiti e invenduti, alcuni dei quali persino tirati su abusivamente dai palazzinari. E li riempì di abitanti, fatti sgomberare dalle bidonville dell’epoca, dai borghetti studiati e descritti da Franco Ferrarotti e da un altro sociologo prematuramente scomparso, Marcello Lelli. Qualche migliaio di persone del 'sottoproletariato' romano, 'baraccati', come allora venivano etichettati. Mio padre entrò dunque ad anno scolastico iniziato in quell’edificio e trovò un’atmosfera da 8 settembre.
Professori assenti dalle lezioni, nelle aule ragazzi lasciati a se stessi, colleghi spaventati da una situazione obiettivamente difficile. Il preside asserragliato nel suo ufficio. Quel maturo insegnante alle prime armi nel suo nuovo lavoro cominciò a parlare con i ragazzi. Capì, senza bisogno di chiedere, che non pochi di loro non seguivano una dieta alimentare 'adeguata'. Dove sono tuo padre e tua madre? Dove abiti? Quanti fratelli hai? Ben presto gli fu chiaro che aveva come alunni molti figli di piccoli delinquenti abituali, quel sottoproletariato di ladri, cassettari e prostitute descritto con precisione ed efficacia da Pier Paolo Pasolini.
A Ostia Nuova c’erano tanti ragazzi che saltavano un giorno sì e un giorno no il pasto. Nelle strade, sofferenza e rabbia. Quando un bus dell’Atac attraversava piazza Gasparri, spesso veniva preso a sassate. Polizia e carabinieri si addentravano nel quartiere il meno possibile. Di tanto in tanto c’erano sparatorie: episodi di faide o scontri tra gruppi familiari. Oggi si direbbe di 'etnie' diverse o di 'clan rivali'. Quel lessico, con la retorica e le frasi fatte che lo contornano, non c’era nel 1974. Nel volto dei bambini si vedeva un concentrato della sofferenza dell’età evolutiva. Avevano un solo modo di richiamare l’attenzione su di loro: aggredire, insolentire, fare rumore contro gli insegnanti.
Accanendosi contro quell’esile forma di presidio dello Stato – la Pubblica Istruzione! – in un territorio desolato come nuova Ostia. Mio padre, maturo docente con spiccato senso di comunità e passato da musicante, provò una forte empatia verso quei ragazzi e ne condivise la sofferenza. Decise di fare semplicemente e a ogni costo il suo dovere. E questo, in quel momento, significava coinvolgere i ragazzi, trovare il sentiero per entrare nel loro cuore. Riuscì a far capire loro che raccoglieva il bisogno di affetto, di venir considerati come persone. E trovò il modo di svolgere regolarmente le lezioni, con ragazzi attenti. Capì che bisognava stimolare in loro un’identità positiva e dunque proporre dei modelli. Aveva, del resto, nelle mani la musica, uno straordinario strumento per raggiungere l’animo delle persone. Coinvolse i ragazzi, fece loro comporre un inno della classe, un motivetto, ma preso sul serio. Lo eseguivano prima di iniziare la lezione.
Ed era lo spunto permanente per spiegare note, spartiti, la tecnica di un flauto di legno e di qualche altro strumento costruito lì, imitando quelli a percussione o a fiato delle popolazioni primitive. Dando minuta ma concreta prova di che cos’è la bellezza dell’arte, e di che cosa può dare alla persona. I ragazzi lo ascoltavano in silenzio e partecipavano disciplinatamente. Altri insegnanti non riuscivano a spiegarsi come mai proprio in quella classe, da cui tutti erano fuggiti, vigesse nelle ore di lezione una naturale ma ferrea disciplina. E perché riuscisse a ottenere rispetto e apprendimento quel signore di mezza età, inesperto di aule, che umilmente aveva incontrato una nuova giovinezza nell’insegnare.
Tanti anni dopo, tra memoria familiare e assidue letture della realtà da sociologo quale sono diventato, continuo a pensare che la possibilità di integrare nella società civile 'popolazioni con le stigmate' sia affidata – proprio come in quei quartieri della vecchia Roma delle periferie – al lavoro di uomini sobri, di maestri e di preti di borgata. Non so quanto il rumore di questi giorni abbia aiutato la loro opera umile e discreta. La denuncia del crimine è necessaria, certo, ma la mortificazione di tanta povera gente, certamente no.