Le polemiche che puntualmente esplodono, in prossimità delle feste natalizie, per la faziosità che si manifesta verso i simboli religiosi, specie cristiani, riflettono i sintomi d’una malattia che colpisce l’Europa e la sua cultura, non solo religiosa. Gli episodi più recenti, non tutti conosciuti dal grande pubblico, aggiungono ciascuno una goccia di ostilità, sempre più fredda e irrazionale.Non torno su quelli accaduti, in sconcertate sequenza, in Italia all’insegna di intenti censori sul piano dell’arte e di remissive elucubrazioni sulla «provocazione» che i canti natalizi cristiani potrebbero rappresentare dopo l’eccidio jihadista di Parigi. Segnalo, però, che a Madrid la nuova giunta municipale ha deciso di non allestire nei locali del Comune il tradizionale presepio, provocando reazioni popolari e politiche. Mentre, nel mondo del commercio, la multinazionale di caffetteria Starbucks ha stilizzato il consueto prodotto natalizio, tingendolo in rosso per evocare «tutte le storie».
I lettori di 'Avvenire' sanno che la guerra ai simboli religiosi non è di oggi, se ne trovano tracce in più Paesi, alcune serie, altre ridicole. Una recente proposta di legge in una grande regione della Cina Popolare prevede che gli edifici di culto siano costruiti in modo tale che non risaltino, dal punto di vista architettonico e cromatico, rispetto all’edilizia circostante. Devono essere non troppo alti, con colori neutri che non li distinguano dai Palazzi vicini, e con simboli religiosi (Croci, stelle di Davide, statue di Buddha) che non si facciano notare. La squadra del Real Madrid, forse in ossequio allo sponsor arabo, toglie la croce dallo stemma, si vuole vietare ai giocatori di calcio di fare il segno della croce quando entrano in campo, si stampano biglietti augurali astratti, e si chiama il Natale 'festa d’inverno'. Non manca nemmeno il caso dello Stato di Okhlaoma, dove i seguaci di un culto satanista hanno eretto una grande scultura di Satana-Bafomet (strana figura che origina dal processo ai Templari di Filippo il Bello), per situarla in una piazza della capitale.
Singolarmente, questa volontà maniacale di far guerra ai simboli s’è incrinata, e attenuata, proprio in Francia, che per prima ha modellato la laicità ostile alla religione. È del 2004 la legge che proibisce a chi frequenta la scuola di indossare segni religiosi che non siano molto piccoli, e a essa ha fatto seguito uno stillicidio di misure regressive: l’assunzione di professori che divulghino i principi della
laicité repubblicana; il dovere d’astensione dei funzionari da atti che implichino adesione a una religione, perfino il divieto dei simboli ai familiari che partecipino a gite scolastiche. Questi eccessi provocano ormai reazioni e contestazioni. Più volte i cittadini si oppongono, con ricorsi e appelli, a decisioni negative, non di rado ottengono pronunce favorevoli all’esposizione di presepi e raffigurazioni religiose. Rapporti ufficiali e testimonianze dirette denunciano i rischi della separazione tra cultura e religione: alcuni ragazzi non riconoscono più, nei musei di Francia, la figura della Madonna nell’arte classica, la confondono con una «baby-sitter che accudisce un bambino», non comprendono i principali eventi, le personalità più eminenti, della storia cristiana.
Nei giorni scorsi una «guida della laicità» pubblicata sul sito del Governo ha voluto smussare la tradizionale ostilità ricordando che il presepio (
crèche de Noël) in uno spazio pubblico può consentirsi come espressione della cultura o della tradizione. Alcuni tribunali hanno permesso l’esposizione di opere religiose, perché legate a tradizioni locali, o fonti di attrazione turistica. Un modo tortuoso di ragionare che salva i simboli, e tradisce l’imbarazzo di un potere pubblico che non vuole contraddire il buon senso, e la realtà culturale che ha animato la Francia nella sua storia secolare.
Siamo di fronte ad una sorta di
iconoclastia laicista, che induce a riflettere sulla nostra crisi. I simboli religiosi trasmettono spesso un messaggio universale che si deposita nella memoria collettiva di un popolo e del suo cammino storico. La figurazione ideata da San Francesco nel Natale del 1223 in una stalla di Greccio riassume il senso della svolta che porta nella storia l’annuncio dell’amore di Dio per l’umanità, avvia una crescita d’interiorità giunta sino a noi. Nel presepio tutto è gioia, dal bambino appena nato ai genitori che l’amano, dai pastori che lo riconoscono agli angeli che cantano, ai Magi che viaggiano per partecipare all’evento. Ogni cosa riflette una bellezza che esprime solidarietà, attesa per una storia migliore, fede in una redenzione che non esclude nessuno, e come tale è interpretata anche nella cultura moderna. Laurence Housman vede nel Natale l’evento con il quale l’amore va verso l’odio per vincerlo, la luce allontana il buio, la pace sostituisce la guerra, mentre per Georges Bernanos il Natale è il giorno «di tutte le speranze umane», che parlano a donne e uomini d’ogni colore e latitudine, a chi cade e vuole sollevarsi. L’ostilità che si manifesta contro il presepio, s’oppone a un simbolo che da sempre è oggetto di culto e memoria per i cristiani, ha ispirato artisti d’ogni tipo, pittori, scultori, musicisti, è divenuto punto di congiunzione tra fede, cultura, tradizioni popolari.
Quest’anno, poi, il presepio risponde a una speranza aggiuntiva, porta un messaggio di pace in un mondo che vive una drammatica regressione dai livelli di umanità e civiltà sinora conseguiti, soffre guerre, persecuzioni, violenze. Il messaggio cristiano è più di ieri un messaggio di pace, perché tante promesse sono state tradite, molte attese sono andate deluse, troppi diritti della persona sono negati. Questa è la riflessione che potrebbe essere promossa e sviluppata nelle nostre scuole, tra i ragazzi: il presepio è simbolo di amicizia, intimità, solidarietà, mentre l’ideologia che vuole spegnere la voce della speranza, non sa parlare agli altri, riflette paura, ignora le luci, i suoni, l’interiorità, che provengono dalla raffigurazione di un evento che ha cambiato la storia umana, e la alimenta di continuo.