Gentile direttore,
leggo con grande attenzione e partecipazione la rubrica “Slalom” che ha affidato al suo collega Salvatore Mazza. L’articolo pubblicato giovedì 8 ottobre 2020 mi offre l’opportunità non solo di ringraziarvi per lo spazio dedicato alla Sla, ma anche di chiedere al dottor Mazza di continuare. Quarant’anni fa la parola Sla non significava nulla per nessuno. O meglio, aveva un significato terribile e minaccioso per chi ne era colpito, ma gli altri, la maggioranza non ne comprendeva neppure il significato. Oggi quella parola abbiamo imparato a conoscerla tutti. Non è un cambiamento avvenuto così. Dietro c’è una grande fatica, un grande impegno e, spesso, anche uno sforzo doloroso.
L’Associazione che oggi presiedo ne è una testimonianza. Trentasette anni fa qualcuno si decise che non si dovevano più lasciar soli i malati e le loro famiglie. Eravamo tutti convinti che la Sla non era un dolore (o addirittura una vergogna) da vivere da soli. Al contrario mettere in rete esperienze personali, capacità di cura, stimoli all’opinione pubblica era essenziale per aiutare chi era più in difficoltà. Ora esiste un centro di ascolto a cui si rivolgono centinaia di persone, i malati, le famiglie e gli stessi medici; ci sono luoghi di cura specializzati e se è vero, purtroppo, che non possiamo ancora guarire dalla Sla, oggi possiamo curarla, prendendoci cura della persona. Vuol dire che oggi facciamo attenzione non solo agli aspetti clinici e sanitari, che sono importantissimi, ma anche agli aspetti umani ed etici che toccano le persone con Sla e le loro famiglie.
Allora, quel gruppetto di persone è stato capace di gettare il cuore oltre l’ostacolo e di iniziare un cammino. Se pensiamo alla solitudine di quarant’anni fa quando le domande brucianti non si sapeva neppure a chi poterle rivolgere, possiamo dire che ce l’hanno fatta. In attesa della notizia che aspettiamo tutti da anni, cioè di aver trovato un modo per sconfiggere questa malattia, forse uno degli aspetti più importanti del nostro “esserci” è proprio questo.
Abbiamo imparato che aiutare le persone a lottare contro la Sla ci rende tutti liberi; leggere le parole dell’articolo pubblicato dal suo giornale ci rende tutti consapevoli che la fragilità umana è una caratteristica della nostra vita, tutti prima o poi la incontriamo nel nostro percorso. Allo stesso tempo possiamo affermare che ci sono eroi del quotidiano come Salvatore Mazza che diventano per le famiglie, i volontari e per i nostri scienziati energia pura. Prego tutti voi di “Avvenire” di continuare a costruire insieme a tutte le persone di buona volontà una società giusta e inclusiva. Con stima e gratitudine.
«Costruire insieme a tutte le persone di buona volontà una società giusta e inclusiva»: la prospettiva che lei ci indica a conclusione della sua bella lettera, caro presidente Mauro, è una delle fondamentali regole d’ingaggio dei giornalisti di “Avvenire”. Ce le ha date il nostro editore e noi continuiamo a darle a noi stessi con convinzione e un senso di urgenza reso acuto, anno dopo anno, dalla più nitida consapevolezza delle troppe azioni (e inazioni) che producono ingiustizia ed esclusione e, nello stesso tempo, della crescente pressione culturale che porta a considerare la morte (magari “a comando”) come definitiva e pietosa “cura” a mali dolorosi e ancora inguaribili o addirittura come “rimedio” a una «vita indegna». No, nessuna vita – per quanto infragilita – è mai indegna. E non la morte (che, pure, è parte della vita), ma l’integrale «cura della persona» è essenziale rimedio alla malattia e alla disabilità. Perciò, gentile e illustre amico, grazie di cuore per avercelo ricordato con questa appassionata efficacia. E grazie per lo sprone che riserva a Salvatore Mazza e a noi tutti.