Basterebbe l’annuncio dei due nuovi referendum che Recep Tayyp Erdogan intende sottoporre prossimamente al vaglio del suo popolo per rendersi conto di come e quanto la Turchia – anzi, la Yeni Turkiye, la Turchia Nuova e rinata sotto il suo comando – si allontani a vertiginosa velocità da noi tutti, da quell’Europa cui stava e sta tuttora fisicamente attaccata con un uncino di terra che sempre più ci pare fragile, remoto, prossimo a spezzarsi sotto il peso dominante del vasto corpo asiatico. Basterebbe quel doppio quesito referendario (sempre che non sia soltanto una studiata minaccia), il primo teso a sancire il definitivo divorzio dall’Unione Europea e il secondo che punta al ripristino della pena di morte, per valutare quanto si stia progressivamente allargando il divario fra la Turchia di Erdogan e il sistema delle democrazie parlamentari.
L’impatto che il referendum di domenica (il cui esito ufficiale sarà noto entro una dozzina di giorni, ma di cui si dà per certa la vittoria dei 'sì') avrà negli anni a venire di per sé non tranquillizza. Perché approvando i 18 emendamenti alla Costituzione la maggioranza che ha assegnato la vittoria a Erdogan gli ha conferito la facoltà di poter accentrare tutti i poteri, di nominare e far dimettere i ministri, di non dover più rispondere al Parlamento (depauperato ed esautorato, ridotto a Camera di pura rappresentanza), di scegliere i membri della Corte Suprema, di presentare bilanci e disegni di legge e, dulcis in fundo, consegnandogli la possibilità virtuale di rimanere in carica fino al 2034. Il 'sì' vanta già una maggioranza risicata, forse viziata da brogli e sulla quale il verdetto degli osservatori dell’Osce getta molte ombre: «Il referendum costituzionale in Turchia è stato condotto in condizioni di disparità, la campagna è stata iniqua e le modifiche procedurali decise all’ultimo minuto hanno rimosso importanti salvaguardie».
Come decifrare altrimenti la progressiva trasformazione della Turchia da democrazia autoritaria ad autocrazia di tipo egiziano, iraniano o siriano? Un ribaltamento netto e inquietante se pensiamo a come le democrazie moderne siano nate proprio dalla critica del potere assoluto formulata da Montesquieu e dalla necessità della separazione dei poteri teorizzata da John Locke. Nella Turchia di Erdogan invece il concetto di diritti dell’uomo, di libertà di pensiero, di stampa e – ci domandiamo con grande preoccupazione – anche di religione si fanno ancora più labili: a tutt’oggi 44mila fra poliziotti, magi-strati, accademici, giornalisti, ministri di culto e politici attendono in cella la formalizzazione di accuse che contemplano in buona parte dei casi la condanna all’ergastolo, altri 103mila sono sotto inchiesta, almeno 135mila funzionari pubblici hanno perduto il posto di lavoro, le immunità parlamentari sono state rimosse e l’opposizione rischia ogni giorno l’accusa di terrorismo o di alto tradimento.
È il ritratto cioè di una nazione che con il voto di domenica ha convalidato ciò che sottotraccia già da anni reclamava di esplodere, ovvero la propria anima mediorientale più che europea, frutto di un’osmosi irripetibile fra liberismo economico, identità nazionale e credo religioso racchiusi in una favoleggiata visione imperiale della Turchia che ha scavalcato l’ormai centenaria e sfibrata ideologia kemalista che alla laicità dello Stato assegnava il primo posto, per rifarsi semmai a un altro grande quanto sanguinario riformatore, quel sultano Abdul Hamid II vissuto a cavallo fra Otto e Novecento al quale il presidente Erdogan ama sovente riferirsi con compiaciuta ammirazione. Ma attenzione, a portare Erdogan di forza sugli scudi non è stata soltanto la sua volontà di potenza e il suo sogno di moderno sultano bensì una buona metà dell’elettorato turco.
È vero, a Istanbul, ad Ankara e soprattutto a Smirne – città corsara e da sempre ribelle – il 'sì' non ha prevalso, così come a livello nazionale l’Akp (il partito islamista di Erdogan) ha perduto un buon 10% dei consensi, segno che esiste un ceto medio e una folta rappresentanza di giovani che dubitano e certamente temono un impianto costituzionale così rigido nelle mani di un solo uomo. Ma è vero anche che il voto delle comunità turche in Europa – alle quali si era maldestramente preclusa la visita di ministri ed esponenti del governo di Ankara – ha plebiscitariamente premiato Erdogan e la sua visione neo-ottomana della Turchia. Un Paese con il quale, smorzatesi la condanna e la legittima preoccupazione per l’eclissi democratica in atto, si finirà per dover continuare a fare i conti.
Non senza l’auspicio che l’altra metà della Turchia, quella che ha votato contro il referendum e che più che uno scranno al tavolo delle grandi potenze regionali aspira a un semplice posto nelle democrazie dove ancora vige lo stato di diritto, possa correggere ed emendare la deriva imboccata da Erdogan. Riportandola cioè al ruolo che da sempre le spetta, quella di grande, indispensabile interlocutore d’Europa.