Allineamento e passo non saranno stati da manua-le, ma non è certo quello che conta. Anzi. Medici, infermieri e rappresentanti del personale sanitario per la prima volta nella parata del 2 giugno ieri a Roma, subito dietro i sindaci, hanno portato con evidente orgoglio davanti a presidente della Repubblica, ministri e generali i loro camici bianchi.
Divise che parlano la lingua del servizio agli altri, e che col loro candore riverberano su tutto il corteo uno stile umano che appartiene intimamente alla nostra società. In quella macchia bianca sui Fori Imperiali – dietro le fasce tricolori dei primi cittadini, prima delle magliette blu della Protezione civile – il Paese trova riflesso ciò di cui è capace per vocazione radicata: vedere le necessità degli altri e prodigarsi per soccorrerle, senza calcoli né eccezioni. Non esistono alleati o avversari agli occhi di chi ha il talento del curare. Ma è tutta la parata che ha emanato questa luce, e non potrebbe essere diversamente. Le stesse nostre forze armate non hanno per gli italiani alcunché di aggressivo o minaccioso.
E quando il 2 giugno sfilano – loro sì impeccabilmente ordinate – vediamo salire dentro di noi non certo una qualche fierezza per il dispiegarsi delle armi, o la marzialità dei reparti, ma la consapevolezza di una forza di tutt’altro tipo: quella di chi serve una Repubblica che ripudia la guerra. Si difende così la vita degli altri, servendo. E che lo si faccia in mimetica o in camice, le differenti divise lanciano lo stesso messaggio, reso dal 2 giugno come in una sin- tesi visiva della vera fibra nazionale. Siamo quelli, non altri. E i decisori politici devono essere sempre all’altezza di questo. L’esordio, ieri, dei sanitari nella simbologia repubblicana della 'difesa' ha in fondo contribuito a chiarire una volta per tutte com’è il modo italiano di intendere la stessa presenza militare e la sua azione sulla scena globale.
E che questo sia accaduto nei giorni di una orrenda guerra «di stampo ottocentesco, che sta generando morti e distruzioni » – ha detto il presidente Mattarella alla vigilia della festa di ieri – amplifica il segnale che giunge da Roma, una negazione radicale della logica bellica risvegliata come un mostro dalle armate di Mosca in terra d’Ucraina. A parlare in modo forse mai tanto trasparente ieri sotto il sole romano è stato lo stesso articolo 11 della Costituzione, appunto con quel verbo potente – l’Italia «ripudia» – che porta in sé il permanente rifiuto giuridico e morale della guerra, quella che la variegata presenza della tutela del prossimo in uniforme ha mostrato come un’incompatibilità assoluta e definitiva.
Risuona oggi più di ieri in quelle parole la piena consapevolezza delle «sofferenze» indotte dalla violenza bellica che «si vanno allargando» a «cerchi concentrici », come scandisce il capo dello Stato; l’evidenza che la sopraffazione sta mostrando come «l’amara lezione dei conflitti del XX secolo sembra dimenticata », ma insieme che l’Italia la rammenta molto bene, recandone le cicatrici; e l’irrevocabile scelta per «la strada del multilateralismo» che nasce dal credere in un concetto – la «comunità» – familiare a chi ha scelto di considerare gli altri come prossimo da servire e mai come nemico. Un’attitudine da saper confermare a ogni tornante della storia: pensiamo all’accoglienza non intermittente e discriminate ai profughi – quale che sia la pelle e la terra d’origine – o alla rete solidale spontaneamente stesa sotto l’infuriare della pandemia. È al riconoscerci «comunità» che guardiamo come risorsa primaria quando siamo sfidati da una tempesta inattesa.
E aspiriamo a una comunità di popoli (l’Europa come l’Onu) che sappia respingere come un relitto del passato qualsiasi aggressione espansionistica. È quest’anima profonda che ci sta mostrando con crescente evidenza il pessimo affare del ricorso alle armi come «risoluzione delle controversie », la prospettiva di una pace inevitabilmente sghemba se sarà l’ultimo atto di una guerra di sopraffazione, il preoccupante profilo di una risposta zoppa alla crisi se alla bonifica di spazi per il dialogo si antepone un crescendo di ordigni.
Il fiume di italiani nella divisa di chi difende e serve la vita che ieri ha attraversato il centro della capitale mostra un diverso modo di risolvere questa come le altre crisi in corso, tutti i 'pezzi' di guerra che sfigurano il mondo. Far parlare «le ragioni della pace» vuol dire anzitutto prosciugare «i serbatoi dell’odio » che si sono alimentati in questi 100 giorni di guerra sotto lo sguardo attonito del mondo (e negli anni di quella non vista perché ritenuta 'a bassa intensità', come fosse una scaramuccia locale). Ma qualcosa ieri ci ha detto che non siamo prigionieri dell’«incancrenirsi delle contrapposizioni», non ancora. I camici bianchi in cordiale parata hanno ricordato che quando l’umanità è ferita per le divisioni che minacciano il suo destino c’è sempre chi sa prendersene cura, a indicare una speranza comunque certa.