Certo, per noi cattolici (dovrei forse dire per la maggior parte di noi?) il Papa è il Papa. La sua autorevolezza è affidata allo Spirito e registrata per tabulas: scolpita nella parola del Signore e confermata nella tradizione della Chiesa. In questi dieci anni abbiamo, però, sperimentato una singolare intonazione del ministero di Pietro, nell’interpretazione di Francesco, che ha creato una vibrazione di fiducia proprio nei confronti dell’autorevolezza di questa funzione, da parte di moltitudini non cattoliche e non cristiane.
Nonostante le pungenti dialettiche che eruttano qua e là all’interno, l’autorevolezza di Francesco ha un credito vasto e pieno di attese. Che c’è di strano? Il Papa è di per sé una figura di rilievo mondiale: la sua proiezione mediatica da decenni ne moltiplica l’enfasi, iscrivendola nell’immediata percezione dei singoli e delle masse in ogni parte del mondo. Oltre tutto, da quando esiste questa amplificazione mediatica abbiamo avuto in dono, come Papi, personalità in grado di tenere la scena e di suscitare attenzione attraverso una speciale capacità di rivolgersi alle moltitudini – anche non cristiane, anche non religiose – nello spirito del Concilio Vaticano II. Dunque, nella postura del dialogo aperto, serio e pieno di rispetto; nella testimonianza della passione per l’umano che è comune, oltre le differenze; nella ribadita disposizione a percorrere il cammino penitenziale della giusta autocritica e della purificazione evangelica della forma ecclesiastica.
Ma non è su questo che vorrei proporre una riflessione, ora (altri l’hanno fanno e lo faranno meglio di me). Insisto invece sulla fiducia nel modo di interpretare proprio il tratto che, storicamente, ha accumulato i maggiori fraintendimenti della forma cattolica del papato (e della Chiesa cattolica, in generale). E cioè l’autorevolezza. Diciamo pure l’autorità, che investe questo ministero con il carisma della conferma della fede. L’uomo non è senza spigoli (lo ammette francamente lui stesso: e persino questo è un tratto che aggiunge simpatia).
Eppure la sua interpretazione dell’accoglienza evangelica incanta e intenerisce, persino. L’autorità, qui, tiene allo scoperto i suoi intoppi, le sue dialettiche, i suoi dubbi, i suoi difficili equilibri. Ma non si tira indietro dal compito evangelico di testimoniare autorevolmente Gesù e di rassicurare la fede: senza esitazioni, senza incertezze, senza indorare la pillola. L’autorità, qui, supplica di riconciliarsi con Dio, percorrendo la strada della tenerezza, della misericordia, della compassione.
Parla al pubblicano, alla samaritana, alla cananea, come se fossero semplicemente “i suoi” e non degli “alieni”. E non risparmia i suoi, quando sono tentati di mettere ostacoli presuntivamente giudiziosi a questa disarmata ospitalità evangelica. Francesco parla in parabole.
Capita che i più assuefatti al gergo ecclesiastico non capiscano subito come tradurre (oppure, non trovino subito il riscontro nel manuale). Capita che i meno preparati si sentano rassicurati: come se parlasse a loro e per loro.
Francesco, oltretutto, parla una lingua piuttosto devota: come un parroco all’Areopago, si direbbe. Eppure, intere moltitudini, con altre devozioni e anche senza devozione alcuna, lo intendono nella propria lingua. E se ne commuovono, persino. Francesco è tenero, ma anche ruvido e non zuccheroso. Eppure, il sentimento delle moltitudini lo riceve come uno che parla con autorità: uno che sa che la legge è necessaria, ma non sufficiente a riaprire la fede nell’amore di Dio. Né a suscitare speranza nell’amore del prossimo.
Francesco riesce a rendere credibile, persino amabile, la suprema autorità che conferma l’essenziale della fede: che la Chiesa non può perdere. E neppure il mondo.
Rendere affidabile l’autorità del vangelo, mostrando e praticando la sua differenza da ogni mondano privilegio dell’elezione e da ogni incalzante proselitismo dell’appartenenza è un effetto nuovo del ministero supremo, non ancora sperimentato con tanta immediatezza. L’eredità di un ministero è sempre affidata al discernimento e alla vita della Chiesa.
Di certo, però, questo cambia qualcosa per sempre, nella storia dell’istituzione. Vorrei aggiungere un nota di possibile approfondimento, su questo punto: con particolare riferimento alla condizione delle giovani generazioni, che mostrano una inaspettata confidenza nei confronti del vecchio Papa, che merita evidentemente il loro informale e spontaneo affidamento. La mia idea è questa. Da decenni lamentiamo la nostra condizione di società “senza padri”.
Il lamento, se devo essere sincero, mi pare un po’ ambiguo. Ci lamentiamo, perché i giovani ci appaiono figli dispersi e privi di guide autorevoli. Però, il fantasma del padre- padrone incombe: il disinnesco di ogni autorevolezza sembra addirittura un farmaco educativo e sociale al buon uso della libertà. Personalmente, penso invece che la nostra sta diventando l’età del figlio abbandonato. Il padre ha imparato a svignarsela: o padrone o niente.
Quindi niente. I figli non si sentono affatto più liberi: sono pieni di paure (che cercano di dissimulare, per impedirci di approfittarne). E dopo la pandemia, in mezzo alla guerra, stanno venendo tutte al pettine e allo scoperto. Uno che non se la svigna e parla con autorità, ti affida a Dio e non pretende di essere un padreterno, ti incalza a lottare contro gli abusi dei padri e li richiama ruvidamente al loro dovere, è una benedizione.
Di questa benedizione s’è impoverita la scuola, la politica, il diritto delle moltitudini. Se ne illumina, contro ogni previsione, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, la suprema autorità della Chiesa. Vuoi che le generazioni stremate di questa epoca difficile non drizzino le orecchie?