giovedì 31 ottobre 2013
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Due anni fa, il medico e ricercatore in neuroscienze britannico Raymond Tallis lanciava un severo monito: «Il mondo accademico è attualmente in preda ad una strana e preoccupante 'epidemia di biologismo' che ha contagiato anche l’immaginazione popolare. Scienziati, filosofi e alcuni cultori delle scienze umane ritengono – e vogliono farlo credere a tutti noi – che nulla di fondamentale separi l’umanità dall’animalità».
L’autore di questa affermazione è un ateo umanista che nel settembre del 2010 firmò, insieme ad una cinquantina di intellettuali del Regno Unito, la lettera di protesta contro la visita di Benedetto XVI in Inghilterra, pubblicata dal quotidiano The Guardian. La ragione, il realismo e l’esperienza non si sono ancora arresi di fronte alla malattia mortale del pensiero provocata dal riduzionismo zoologico e dalla negazione della differenza antropologica che abitano la cultura contemporanea, ed ecco sorgere all’orizzonte della modernità un traguardo ben più ardito cui alcuni già aspirano: il riduzionismo botanico e la cancellazione della differenza zoologica.
Il fascicolo di novembre di Focus ospita un articolo dal titolo di copertina 'La coscienza delle piante'. Il giornalista, riprendendo alcune affermazioni del professor Stefano Mancuso, ci informa che «i vegetali vedono, sentono, annusano e hanno anche molti altri sensi straordinari. Non solo. Parlano tra loro … Comunicano con reti naturali simili alla nostra Internet». Certo, egli ammette, le piante «non hanno i cinque sensi come noi, ma molti di più. Sono intelligenti e hanno il senso della famiglia» (dovremmo andare a scuola da loro per reimparare il senso della famiglia!). Insomma, «le capacità delle piante non sono così differenti da quelle degli animali». Ma il docente fiorentino intervistato è ancora più esplicito: «Credo di essere in grado di dimostrare che le piante siano intelligenti».
Le 'nuove prove' sarebbero la produzione e la ripetizione («memoria») di segnali biochimici e fisiologici in risposta a stimoli esterni, ambientali (da sempre la biologia insegna che ogni organismo vivente, dal più piccolo batterio al più grande mammifero, è in grado di rispondere molecolarmente e morfofisiologicamente – ma non intenzionalmente! – a stimoli fisici e chimici), e la capacità di 'difesa' da attacchi nocivi da parte di altri organismi viventi (insetticidi di origine vegetale, quali i piretrinici, erano noti e usati già nell’antica Mesopotamia e il concetto e la pratica di fitoterapia antimicrobica attraversa secoli di medicina).
Dall’intelligenza alla coscienza il passo appare breve. La chiusura è affidata alle parole di Daniel Chamovirz, dell’Università di Tel Aviv. «Le piante potrebbero avere una specie di coscienza basata solo sulle sensazioni e non sulla consapevolezza di sé, come accade per noi e gli animali più complessi'» Un salvataggio in zona cesarini da un epilogo grottesco – la 'consapevolezza di esistere' dei vegetali – che però non riscatta l’articolo da un’ambiguità di fondo che lo attraversa: l’uso disinvoltamente ambiguo di concetti plurivoci quali 'sensibilità', 'linguaggio', 'comunicazione', 'risposta', 'relazioni familiari', 'intelligenza' e, ancor più, 'coscienza'. Essi vengono predicati sia in riferimento alla fenomenologia dell’intenzionalità (piano antropologico) che a processi biofisici, biochimici, morfologici e fisiologici comuni agli organismi viventi vegetali e animali (piano biologico), attraverso un’estensione semantica che richiede però di essere precisata e giustificata, evitando così acrobazie epistemologiche che nulla hanno a che spartire con una rigorosa ed efficace divulgazione delle scoperte e delle ipotesi scientifiche.
Il dibattito sulla differenza tra uomo, animale e vegetale è antico e moderno al medesimo tempo. Quello che Aristotele e coloro che lo hanno seguito nella storia del pensiero occidentale ci insegnano attraverso la tripartizione di anima vegetativa, sensitiva e razionale va al di là della teoria ilemorfica entro la quale essa si configura originalmente, e suggerisce che senza distinzioni ontologiche ed epistemologiche non è possibile giungere realisticamente e ragionevolmente a quella unità del sapere cui scienza, filosofia e teologia guardano oggi con rinnovato interesse.
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