Sempre più invasiva la presenza dei social
Un’ultima chiamata all’assunzione di responsabilità. L’indagine avviata in questi giorni dalla Commissione Europea su Meta, proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp, accusata fra l’altro di utilizzare tecniche manipolative nei propri servizi inducendo forme di dipendenza nei bambini, s’inserisce in una lunga serie di iniziative analoghe in corso su entrambe le sponde dell’Oceano. È dell’ottobre scorso la causa intentata da 42 Stati americani contro l’azienda, e del gennaio di quest’anno la drammatica testimonianza al Senato Usa di Mark Zuckerberg, costretto a chiedere scusa ai genitori di ragazzi vittime di ricatti sessuali sulle piattaforme di Meta. In febbraio è stata la volta dello Stato di New York, che si è costituito in giudizio contro diversi social, accusati dal sindaco Eric Adams di costituire una «tossina ambientale» altamente pericolosa per gli adolescenti.
Ora questa iniziativa Ue fa appello al “Digital Services Act”, il nuovo regolamento dell’Unione che impone ai servizi online di grandi dimensioni una serie di controlli sulla sicurezza, in particolare dei minori. Secondo le accuse, Meta avrebbe cercato di carpire in ogni modo l’attenzione dei bambini facendoli finire spesso in quelle che vengono chiamate rabbit hole, “tane del Bianconiglio”, tunnel di contenuti che, seguendo le logiche algoritmiche, si fanno via via più estremi e possono allontanare dalla realtà e indurre comportamenti pericolosi. Pensiamo a tutto ciò che riguarda l’alimentazione, che può sfociare in post e immagini tendenti a promuovere disturbi anche molto seri, o a contenuti sempre più violenti ed efferati. I dirigenti di Meta asseriscono di aver messo in campo ogni risorsa per evitare simili derive, ma ormai si moltiplicano le evidenze del contrario. Nell’udienza al Senato americano sono state esibite email interne all’azienda in cui si parlava di una carenza di investimenti sulla sicurezza dei minori. Tanto che la senatrice repubblicana Marsha Blackburn aveva messo alle corde Zuckerberg: «I bambini non sono la vostra priorità, sono un vostro prodotto, un modo per fare soldi».
Il problema di rendere Internet un luogo più sicuro per i minori non è certo di facile soluzione. Sono diverse le proposte di legge al vaglio: negli Usa è a un passo dall’approvazione in Senato il “Kosa” (Kids’ Online Safety Act), che ha ottenuto appoggio bipartisan ma non la collaborazione dei principali social media, tenacemente convinti che l’autoregolamentazione e una sorveglianza più attenta dei genitori possano bastare a tutelare i minori. Se è vero che i genitori vanno richiamati a una maggiore responsabilità, è triste che un tema così serio tenda a diventare oggetto di un avvilente mercanteggiamento sulle risorse tecniche ed economiche per farvi fronte. Forse per arrivare a una vera soluzione dovremmo allargare lo sguardo e chiederci seriamente, come società, quanto davvero contano oggi per noi i bambini e gli adolescenti. Che cosa siamo disposti a fare per garantire loro una crescita sana, tutelando l’infanzia per quello che è, senza lasciare che le spinte commerciali la erodano fino a eliminarla? Come sostiene lo psicologo sociale Jonathan Haidt nel suo recente saggio The anxious generation, siamo passati da un’infanzia basata sul gioco a un’infanzia basata sul telefono. E sugli schermi.
Nei giorni scorsi la commissione di esperti nominata dal presidente francese Macron ha pubblicato un lucido e coraggioso rapporto sul tema, “Alla ricerca del tempo perduto”. E di tempo, per proteggere seriamente i minori online, ne abbiamo già perso troppo.