Presunti miliziani del Daesh catturati a Mosul dai liberatori (Foto Laura Silvia Battaglia)
Barak Razaq al Maliki si contende con il più giovane collega Suleiman un accendino di acciaio di buona fattura con un coltello a scomparsa dalla lama lunga e affilata. Con quest’ultimo si accende una sigaretta, tra un turno e l’altro del servizio sulla prima linea. «L’abbiamo trovato addosso a un miliziano di Isis. Magari lo usava per tagliare le gole. Me lo porterò a casa come gadget di guerra». Qui – una casa con una coorte centrale aperta e cinque stanze intorno, su due piani –, avamposto scelto dalle forze irachene speciali sugli ultimi 200 metri che li separano dalla vittoria, la brigata va e viene dai vicoli stretti dove la battaglia continua. I colpi di mortaio del Daesh intervallano il via vai intenso delle unità, mentre alcuni soldati meno stanchi rispetto a chi è appena rientrato dalla linea del fronte, trasportano munizioni per Rpg, per contrastare il fuoco nemico. «I miliziani sono asserragliati dentro: è ancora pieno di cecchini. Riteniamo siano tra i 100 e i 150 circa», specifica Barak.
Perché qui a Mosul, nella città vecchia, contro il Daesh si combatte ancora, casa per casa, metro per metro, nel quartiere alle spalle della moschea di al-Nouri. Benché, nella zona Sud-Ovest, centinaia di iracheni abbiano fatto capannello tra ristoranti e negozietti, armati di telefonini, per immortalare il premier Haider Abadi in visita istituzionale, durante la quale ha dichiarato ufficialmente che «Mosul è libera». Gli ha fatto eco il comando americano ieri: la città è stata tolta al Daesh. E anche Trump si è congratulato. Di fatto, il lavoro, sia per la Golden Division sia per le forze Isof, non è ancora finito. «Per tutto il tempo della battaglia ci gridavano di andare via, apostrofandoci come infedeli. Se non sono cecchini, hanno cinture esplosive. Liberare Mosul è difficile perché se entri in una casa hai un potenziale attentatore suicida per ogni stanza», spiega un soldato. A quel punto, alle unità dell’esercito iracheno non è rimasto altro da fare che gettare granate contro gli attentatori e incoraggiare il bombardamento. Il tenente-colonnello Ali al Hussein, che comanda la seconda brigata del sedicesimo battaglione della Golden Division, si rilassa su un canapè della città vecchia, nonostante il giubotto antiproiettile sia enorme, imbottito com’è di granate.
Ha stampata sul volto la soddisfazione di chi ha portato a casa il risultato e ha salvato i suoi uomini: «I miei hanno già finito il lavoro per la zona assegnata: abbiamo piantato la bandiera irachena sul Tigri, ma è stato un inferno. Abbiamo circondato i miliziani del Daesh su tre lati e, ad un certo punto, è stato un corpo a corpo. Non hanno potuto fare altro che difendersi, non avevano modo di scappare. Chi ha voluto, tra loro, si è suicidato». Il tenente colonnello lo ammette chiaramente: «Abbiamo ucciso 26 civili, catturato solo una donna con i suoi 4 figli'. La donna, francese, sarebbe moglie di un miliziano di alto grado, francese anch’esso. «Al momento è sotto interrogatorio», fa sapere al-Hussein. A Mosul quelli che contavano e comandavano erano tutti stranieri, occidentali. Gli operativi, soprattutto russi. «Abbiamo trovato moltissimi passaporti di combattenti provenienti dal Caucaso, dalla Georgia, dall’Abkazia».
REPORTAGE FOTOGRAFICO Ecco cosa resta di Mosul di Laura Silvia Battaglia
Un soldato della seconda brigata ci mostra una serie di taccuini trovati in un’abitazione. Il proprietario, tale Abu Dhaar, teneva l’agenda telefonica in ordine: tra un elenco di un altro centinaio di 'abu' come lui, trovano posto alcune hadith del Corano ricopiate a mano, forse per darsi coraggio in battaglia. Nella città vecchia, il Daesh teneva anche un autentico arsenale. «Sono stati trovati 1.500 kalashnikov con numero di serie che li fa risalire all’esercito iracheno; 200 Rpg; 50 kalashnikov automatici modello Pulemyot; migliaia di munizioni di diversa grandezza e Ied», dice il primo colonnello Mohammad Sahab, in piedi su una pila di detriti accanto al corpo senza vita di un miliziano islamista. «Abbiamo usato quattro soldati del genio per ogni battaglione per identificare gli ordigni non convenzionali, sparsi dovunque, per farli brillare prima che uccidessero qualcuno».
Nella città vecchia di Mosul, ridotta a un ammasso di macerie in un’atmosfera spettrale, l’odore dei cadaveri lasciati senza sepoltura è insopportabile. I pochi civili rimasti, fuggiti qualche giorno fa ed identificati, sono rientrati in casa senza elettricità e senz’acqua, ma preferiscono comunque restare qui, piuttosto che recarsi nei campi profughi. «Siamo convinti che il governo non ci aiuterà», dice Bashar Mousa, mentre apre il portone di casa crivellato dai colpi di mortaio. La sorte di questi civili rappresenta la punta dell’iceberg di un conflitto molto più cruento di quanto previsto e che lascia un prezzo molto alto da pagare: 900mila persone, secondo le Nazioni Unite, sono disperse. Senza contare che il costo per ricostruire tutte le infrastrutture di base nel governatorato di Mosul si aggira intorno a un miliardo di dollari.
Nemmeno i cristiani, lo si sa, dormono sonni tranquilli, anche a battaglia finita. Padre Benoka, sacerdote siro-cattolico, attivo tra le famiglie di Mosul e della piana di Ninive, dice: «Questa è una vittoria per tutti gli iracheni. Tuttavia abbiamo timore per possibili sacche di resistenza jihaddista. Noi restiamo prudenti». Il problema principale per la convivenza pacifica adesso sono gli abitanti della città vecchia: chi di loro era vittima e chi di loro era connivente con lo Stato islamico? Mashan Ahmad è uno di quelli su cui pende questa domanda. Mashan è accovacciato con la testa contro il muro, le mani legate molto strette dietro la schiena, come altri due prigionieri, nella stessa stanza che funge da prigione temporanea nell’avamposto che le forze speciali irachene hanno creato sulla linea del fronte. «Questi sono del Daesh, anche se continuano a negare», racconta un soldato iracheno che li tiene in custodia, con tutto il disprezzo di cui sembra capace. Uno dei prigionieri si urina addosso. L’altro accenna un tentativo di preghiera nella posizione accovacciata. Mashan, che indossa una maglietta da calciatore bianca e rossa, con la scritta 'France' sulla schiena, sgrana gli occhi terrorizzato. Ci dice: «Non sono uno di loro. Sono di Mosul. Avevo paura per la mia famiglia, per questo mi son lasciato arruolare dal Daesh». Gli uomini delle forze speciali irachene non si fanno intenerire. «I nostri cecchini li hanno visti puntare verso di noi – spiega un soldato –. Cercano di spacciarsi per sfollati, ma moriranno». Intanto, il soldato che li ha in custodia si pone alle loro spalle e gira le testa a comando, mettendoli in favore di telecamera per i giornalisti radunati qui. E mentre esegue il movimento, come fosse un burattinaio, esclama: «Adesso potete guardare in faccia il Daesh».