L'ultima battaglia di un uomo
martedì 22 maggio 2018

Di seguito uno dei due commenti sulla tragedia di Francavilla al Mare pubblicato quando ancora non si conosceva il responsabile dell'uccisione di Marina Angrilli, moglie di Filippone. Sotto il dialogo dell'autrice con una lettrice.

Per tutto il pomeriggio di domenica nelle immagini dei tg quell’uomo aggrappato alla rete di protezione del viadotto dell’A14, verso Francavilla al Mare, i piedi a stento poggiati sulla soletta di cemento: sotto, un abisso di trenta metri, in basso carabinieri e polizia e ambulanze, e curiosi con gli occhi all’insù. Fausto Filippone, 49 anni, dirigente d’azienda, sposato, padre, uomo definito da tutti tranquillo, a mezzogiorno di una domenica di maggio ha visto la sua vita travolta da una tragica, ancora oscura piena. La moglie, insegnante, precipita dal terzo piano di casa e muore poco dopo. Caduta? Spinta? O invece si è buttata? Non ci sono testimoni, nessuno sa. Ma pochi minuti dopo Filippone va a prendere la figlia Ludovica, dieci anni, dagli zii e si dirige verso l’A14. Verso un viadotto che corre sopra un precipizio. Ferma la macchina al km 389, come se già conoscesse quel punto. Come se altre volte, passando in auto, avesse annotato fra sé quando terribile era il vuoto, lì sotto. Prende per mano la figlia, la solleva oltre il guard-rail, la precipita nel nulla. Tocca il suolo con un tonfo leggero il suo piccolo corpo di bambina.

Poi, anche l’uomo scavalca. Ma non si butta. Per sette ore resta lì, in quel vertiginoso bilico, e così, ora dopo ora, lo vediamo in tv. Ora dopo ora, la nostra domenica tranquilla e quell’uomo sul viadotto, che guarda giù, stacca una mano dalla rete, sembra decidersi, poi torna a aggrapparsi saldamente. “Scusa! Scusa!”, grida nel vuoto, come rivolto alla bambina. Non vuole che nessuno le si avvicini. Ascolta a stento le parole degli agenti e degli infermieri, che lo esortano a desistere. Di nuovo si stacca dal sostegno. Di nuovo cambia idea. Per sette ore. Un’infinita pena, in te che pure lo guardi da estranea. Un’infinita pena per quell’uomo che, spinto da non sai quale disperazione o follia, ha appena, comunque, ucciso la sua bambina, e dunque nel cuore è già come morto; e vuole, ha deciso di farla finita, giacché il pensiero di ciò che ha fatto è insopportabile; eppure qualcosa all’ultimo istante lo trattiene, e le mani sudate si riavvinghiano all’ultimo sostegno. Cosa lo ferma? Un istinto di vita terribilmente umano, terribilmente forte. La moglie è morta, la bambina è quella piccola chiazza chiara inerte, laggiù fra i cespugli. L’ha buttata forse per non lasciarla sola in un mondo che gli pare terribile, l’ha buttata con l’idea di seguirla immediatamente e morire insieme? Ma, adesso, non ce la fa. Il nulla, sotto, gli comunica un orrore insuperabile.

La vita di Fausto Filippone in un’ora, non sappiamo ancora come, è stata sconvolta da una frana di morte. Eppure questo pover’uomo ancora ha in sé una fiammella che gli sussurra: non farlo, vivi, c’è ancora una speranza. Quando alza gli occhi al cielo, è forse per una preghiera? Che immane lotta, al chilometro 389 dell’A14, mentre le auto dietro sono ferme in coda, e nessuno suona il clacson. Di sotto, fra chi è accorso a vedere, ci si racconta di una famiglia normale, mai una lite. Un lutto, sì, la mamma di lui morta recentemente, dopo una lunga malattia, e il figlio fattosi più silenzioso. Ma in quante case muore un vecchio, e la vita, pure dolorosamente, continua? Appena l’altro giorno, dicono i conoscenti, Fausto e la moglie avevano portato la bambina a una manifestazione canora. Ludovica aveva cantato “Controvento” di Arisa. Tutto così semplice, così familiare. Nessuno che si fosse accorto di niente. Poi, repentina, l’onda di morte. Quell’uomo tranquillo trascinato via, spinto all’inaudito: uccidere la figlia. Certo pensando: e subito mi getto anch’io. Invece, sette infinite ore. Lottando, diviso fra forze immani. La morte, e, nonostante tutto, ostinata, la vita, che gli attanaglia alla rete di metallo le mani. Infine, è quasi sera, uno schianto. L’epilogo della tremenda battaglia di un pover’uomo. Il cielo sopra, immenso e muto. Eppure, ne sei certa, una misericordia immensa ora abbraccia quel soldato travolto e caduto.

Botta e risposta. Misericordia anche per l'assassino per capire l'origine di tanto male

La lettrice non condivide la riflessione di Marina Corradi sulla tragedia che ha visto un uomo togliersi la vita dopo aver ucciso la figlia e come si è poi capito la moglie

Gentile direttore, vorrei spiegarle perché dissento da quanto scritto in un editoriale da Marina Corradi su 'Avvenire' del 22 maggio. Inorridita, ho letto tutto d’un fiato l’intero articolo, quasi a sperare che a un certo punto cambiasse, ma no, non è andata così. Mi aveva inquietato già il titolo: «L’ultima battaglia di un uomo».

Di quale battaglia si voleva parlare? Non riuscivo a capirlo e continuavo a sentirmi turbata nel leggere, perché non era così che doveva essere vista una tale tragedia. Non era così che doveva essere raccontata. Il messaggio che una penna giornalistica ha il compito sociale di far passare, deve essere quello giusto, per dovere di verità e di misericordia verso le sole vittime di questo omicidio, che sono indiscutibilmente una mamma e sua figlia. Non certo lui, marito e padre: un assassino. Non provo alcuna pietà. Lui ha ucciso. Non lo compiango. Non lo compatisco. Non ho «pena» alcuna – al contrario della sua collega – nel vederlo per ore appeso alla rete autostradale. Ho provato invece tanta pena, una pena infinita che mi ha straziato il cuore, per quella povera bambina di soli 10 anni, Ludovica, gettata nel vuoto dal papà. Da colui che avrebbe dovuto difenderla e proteggerla. Ho avvertito per questa piccola anima una pena sorda, agghiacciante, dolorosa fino alle lacrime. Ho immaginato cosa avesse potuto pensare, in quel momento in cui lui la stava scaraventando dal viadotto. Ho pensato a quanta disperazione avrà provato sola e senza difesa, guardando in faccia la mostruosità che suo padre le stava facendo vivere, per farla morire in quel modo orribile.

Chissà quali saranno stati i suoi ultimi pensieri in quel tempo necessario per arrivare a terra. Chissà... e la mia pena aumenta senza contenimento nella mia mente, verso di lei, angelo innocente. Magari avrà pensato o chiamato la sua mamma. Anche lei già morta. Scaraventata dalla terrazza di casa. Altro probabile femminicidio ingiustificabile da alcuna «disperazione di un povero uomo». Il femminicidio è quanto di più aberrante ci siamo portati dietro nella nostra società moderna: uomini che credono e pensano di poter arbitrariamente uccidere una donna, perché non è come l’avrebbero voluta o solo perché non è andata come volevano. Tutte donne bellissime che giornalmente avevano conquistato il loro mondo passo dopo passo, con la fatica nel dimostrare che erano all'altezza di poter scegliere la loro vita. Donne evolute a fianco di uomini non evoluti e violenti.

Mentre leggevo mi domandavo tante cose e soprattutto mi chiedevo perché una donna, una giornalista, non stava evidenziando la sola evidenza possibile. Non mi rendevo conto perché una donna non fosse dalla parte dell’altra donna morta e della sua bambina. Simone de Beauvoir (1908 – 1986) scrive: «Le donne non hanno un passato, una storia, una religione, non hanno una solidarietà di lavoro o di interessi... le donne vivono disperse in mezzo agli uomini, più strettamente che alle altre donne...». Non avrei mai voluto pensare che ancora oggi, quanto affermato da questa scrittrice, indimenticabile avanguardista, fosse ancora verità. Mi ha sconvolto, infine, la chiusura dell’articolo, dove l’assassino viene paragonato impropriamente a «un soldato travolto e caduto». Di quale sodato si sta parlando? Ancora non capisco... i soldati sono coloro che muoiono per difendere una bandiera o un ideale, non uccidono una donna e una bambina. No i soldati non sono assassini. I soldati combattono semmai una guerra dove sono costretti ad uccidere per assurdi motivi, ma non perché si arrogano il diritto di vita e di morte, come in questo caso di una mamma e della sua creatura. Provo molta pena per tutti i familiari che restano di entrambe le famiglie, costretti a convivere con un dolore grande e così tanto insopportabile, per sempre. Spero, direttore, che mi avrà compreso. Ho solo volontà di supporto morale verso Ludovica e la sua mamma Marina, affinché non passino messaggi distorti dove la disperazione per torti subiti o vite dolorose possa giustificare atti orrendi come quelli accaduti, non difendendo la Vita. Cari saluti

Simona Valigi

Gentile signora, comincio dalla fine: quel «soldato caduto» si riferiva evidentemente, come era esplicitato nel pezzo, alla lotta perenne fra il bene e il male, fra la vita e la morte. Queste sono, avevo scritto, le «forze immani» che laceravano quell'uomo in bilico sul vuoto. Perché la vita è una grande battaglia fra queste due forze e noi, uomini e donne, dobbiamo scegliere. Si può scegliere il male, o anche, talvolta, lasciarlo agire in noi, lasciarcene silenziosamente conquistare fino a esserne travolti. Un lettore di 'Avvenire' ci ha scritto che conosceva Filippone e che gli era sempre apparso un uomo «mite e attento agli altri».

Che cosa è successo a quest’uomo «mite»? È impazzito? I medici, che lo avevano recentemente visitato, dicono di no. Forse, quella malattia è sfuggita ai loro occhi. Oppure, non di follia, ma di male si è trattato. Per me, così come insegna la Chiesa, il male esiste. Noi cristiani preghiamo ogni sera «liberaci dal male». «Soldato caduto» solo e soltanto in questo senso: uno che ha lavorato, ha cercato per molti anni di essere un marito e padre, e poi, non sappiamo come, non sappiamo attraverso quali drammatici errori, è stato accecato dalla più feroce violenza. Femminicidio, lei dice, ciò che è accaduto a Francavilla. Mi permetta di far notare che non è stato solo un terribile femminicidio: l’uomo ha ucciso la moglie (ma nel giorno in cui io scrivevo questo non era stato ancora accertato dagli inquirenti) e poi anche la sua bambina, in ciò che gli psichiatri chiamano «suicidio allargato». Quando cioè un padre, o spesso una madre, giudicano la loro vita ormai tanto disperata da scegliere di morire portandosi via con sé ciò che hanno di più caro: il figlio, o la figlia, bambini. La cronaca purtroppo è piena di tali «suicidi allargati». Ora, io mi sono immaginata quest’uomo: non si era ancora certi che avesse ucciso la moglie, ma aveva gettato nel vuoto la sua bimba, la figlia cui insegnava a sciare, che portava ai concorsi di canto. Quanto orrore e disperazione e annichilimento lo spingevano ormai con risolutezza verso la morte. Eppure, sette lunghe ore a esitare su quell’abisso, come se nonostante tutto la vita e l’ombra di una radicale, ostinata speranza lo trattenessero ancora. Forze immani sopra a un «pover’uomo». Pietà per la moglie, pietà infinita per la bambina, è naturale, è imprescindibilmente umano.

Lei dice però: non provo alcuna pietà per chi uccide. Io invece sì. Perché anche la sorte dell’assassino è orribile. Perché, inoltre, non posso escludere in assoluto di essere perfino io capace di tanto male. Perché ho imparato per osmosi dal cristianesimo a avere pietà anche dell’assassino. Da quelle pagine dei 'Promessi Sposi' dove il cardinale Borromeo accoglie con misericordia l’Innominato, un uomo che aveva passato la vita a uccidere e fare uccidere. (Mi colpisce che, e a volte anche fra cristiani, la pietà per l’assassino scandalizzi. Temo sia un segno di questi tempi smemorati e giustizialisti). Infine, se quell’uomo appeso per sette ore a una rete, soggiogato dalla morte ma istintivamente incapace, per ore, di buttarsi, mi ha fatto pena, nonostante il sangue appena versato, è, credo, perché sono madre, e da quando ho avuto dei figli ogni volta che vedo un reietto, uno per cui si invoca magari la pena di morte, mi viene da pensare: mio Dio, se fosse mio figlio. Che è, in fondo, il seme della misericordia. Misericordia significa «con viscere materne». Misericordia che io vorrei essere capace di esercitare verso gli esseri umani, prima che per maschi e femmine. Per me, prima che maschi e femmine, siamo prima di tutto esseri umani.

Ho, signora, le garantisco, da donna e da madre di una figlia, la sua stessa grande pietà per queste donne, per queste ragazze mietute dalla mano di uomini che hanno amato, di cui evidentemente si fidavano. Ma in quell'articolo mi sono fatta carico di un altro pezzo di questa storia atroce, la parte di un «uomo mite» che improvvisamente ha ucciso la figlia e, come poi abbiamo appreso, la moglie che aveva amato senza aver mai fatto loro del male prima. Personalmente sono giunta alla conclusione che non basta gridare al femminicidio, e strutturare magari la rabbia per la sopraffazione in una ideologia, per fermare questa strage. Occorrerebbe cercare di capire che cosa va succedendo tra noi, nelle nostre case. E per capire bisogna sempre chinarsi anche sull’altro. Senza farsi accecare, nonostante tutto, dal dolore, dall’indignazione e persino dall’odio. Cordialmente

Marina Corradi

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