È passato tanto tempo, ma non l’ho mai dimenticato. Franco Battiato, catanese, era venuto a un campo sportivo di Padova, a cinquanta metri da casa mia, a suonare e cantare gratis, per chi voleva ascoltarlo. Ci sono andato. Faceva freddino, ma il campo era strapieno. Un mio amico ascoltando quella musica a lampi e tuoni mi disse all’orecchio: "Sono bastonate sulle ginocchia". Era vero, ascoltavi quei suoni elettrici e ti sentivi percuotere. Eppure erano suoni d’amore. Battiato amava l’umanità, voleva aiutarla e proteggere ogni singolo uomo. Era questo per lui il compito della musica, e quindi della poesia e della scrittura. Noi in funzione degli altri. C’è qualcosa di cristiano in questo, nel far musica o poesia o romanzo. Da allora ho seguito Battiato come ho potuto, io che non sono un musicista e non canto e non seguo i cantanti.
M’interessava sentire come si evolveva il suo repertorio, che collaboratori trovava per i testi che unica alle sue musiche, per che cosa soffriva, per che cosa sperava. L’ho sentito disperarsi perché dormiva «sotto cieli di schizofrenia», e m’è sembrato che nei cieli cercasse e sperasse, e si disperasse perché non trovava. Però più di una volta nei suoi versi ho sentito il brivido, se non del contatto, della vicinanza. Quel che cercava era lì. Ma il suo vero messaggio non sta nel cercare, sta nel dare. Noi non dobbiamo occuparci di noi, ma degli altri. Il senso della nostra vita sta nel "prenderci cura". La canzone più bella, la vera summa sistematica di Battiato, è quella che s’intitola "Io avrò cura di te", o semplicemente "La cura". C’è tutto lì, quel che dobbiamo fare per avere un senso. Non dobbiamo occuparci dell’altro perché è malato di malattie, ma perché è malato di se stesso: dobbiamo proteggerlo dalle sue ipocondrie, il che vuol dire dalla sua vita. Il che vuol dire che tutti e sempre han bisogno di aiuto e di protezione. Dobbiamo prenderci cura dell’altro da quando nasce a quando muore.
L’esistenzialismo fa un gran discutere del tempo, la relatività sostiene che non esiste, ma ci sono due versi scelti e musicati da Battiato i quali dicono che il tempo della vita è una sequenza di ingiustizie e di inganni, attraversando il tempo noi soffriamo e compito di ognuno è alleviare le sofferenze dell’altro. Ma ne vale la pena? L’altro se lo merita? Sì. Perché? Perché l’altro è «un essere speciale», e qui non sappiamo se Battiato scriva e canti per l’amico, per la persona amata, per il figlio o la figlia, per il padre o la madre: ogni altro è una figura speciale, e merita che noi ce ne prendiamo cura. Battiato scriveva (insieme al filosofo Manlio Sgalambro) e cantava questi versi un po’ prima delle grandi migrazioni, non credo che pensasse agli stranieri che sono altri perché figli di altre civiltà, ma in essi dice chiaramente che camminare insieme con l’altro è la via «che porta all’essenza», cioè al senso dell’esistenza.
Ho un lamento da esprimere, concludendo questo mio addio a Battiato: una delle più grandi sofferenze di chi legge versi o ascolta canti o legge libri è di sentire nel poeta o nel cantante o nel narratore un fratello, uno come lui, perciò vive in relazione con lui, sapere che lui c’è fa parte della vita, ma a un certo momento questa relazione gli viene troncata, non ne sa più nulla, perché? è giusto? Battiato è stato sottratto alla nostra conoscenza per lunghi anni, volevamo sapere come stava ma nessuno ce lo diceva, perché? C’era affetto nella nostra attenzione, e questo affetto è stato frustrato.