Il convegno di ieri a Parigi, che ha denunciato l’utero in affitto come nuova schiavitù delle donne chiedendone l’abolizione a ogni latitudine, si intreccia con l’accesissimo dibattito in Italia sullo stesso tema. Un dibattito strano, perché nonostante la maggioranza delle persone si dica fortemente contraria – i sondaggi lo confermano – a livello giuridico e mediatico la pratica sembra accettata, quando non addirittura promossa. Dal punto di vista legale, il divieto di ricorrervi – che in Italia già c’è – è aggirato proprio in quei tribunali che dovrebbero farlo rispettare, e non sappiamo ancora se il Parlamento sarà in grado di approvare norme più stringenti e sanzioni più efficaci e dissuasive. D’altra parte giornali e tv raramente stigmatizzano chi affitta l’utero altrui, raccontando piuttosto storie a lieto fine.
Sicuramente pesa la fortissima pressione del mercato della fertilità. Cliniche, agenzie internazionali, uffici legali, vedono lievitare i propri guadagni commerciando con i corpi delle donne più vulnerabili: quelle povere, innanzitutto, e quelle meno consapevoli dei propri diritti, assuefatte alla subalternità. Ma i vantaggi economici di chi sfrutta le madri surrogate, che cedono i figli portati in grembo non appena partoriti dietro pagamento, spiegano solo in parte la difficoltà nel fermare questa pratica.
L’utero in affitto è infatti il fronte d’onda dello tsunami antropologico che ci ha investiti, la manifestazione più eclatante del nuovo paradigma che minaccia di cambiare – letteralmente – i connotati dell’umanità: il fatto che una donna possa partorire un figlio che non è suo, e poi cederlo legalmente a chi glielo ha commissionato, può accadere solo se si riconosce che si è genitori non quando si concepisce e si porta in grembo un bambino, ma quando si ha intenzione di averlo.
Come abbiamo più volte ricordato, con le tecniche di fecondazione assistita per la prima volta nella storia dell’umanità si sdoppia la figura materna dal punto di vista biologico: c’è la madre genetica, che cede i propri ovociti, e quella gestazionale, che porta avanti la gravidanza e partorisce. Non ci sono criteri oggettivi per stabilire chi è la "vera" madre: il nato potrà essere legalmente figlio di una delle due, o di una terza donna, la cosiddetta madre legale, e a deciderlo è un accordo tra le parti, dove si fanno valere le volontà dei singoli.
Nel Mondo Nuovo della rivoluzione antropologica si diventa madri per contratto: questo diventa il paradigma "libertario" della genitorialità e della filiazione. Nella fecondazione eterologa femminile a rinunciare al figlio sarà la "donatrice", cioè la donna che fornisce i propri gameti, mentre nell’utero in affitto sarà la gestante a cedere il neonato.Ed è per facilitarle il distacco che chi commissiona la maternità surrogata si serve anche di una 'donatrice': sarà più facile convincere una donna a consegnare a estranei un figlio non tutto suo, non legato geneticamente a sé. E per regolare tutto questo la forma contrattuale ed economica è inevitabile: se è la mia volontà di genitore committente a valere, e se quel figlio che tu porti in pancia è mio, di conseguenza tu devi impegnarti a non mettere a repentaglio la salute di mio figlio (quindi a non fumare, a nutrirti e curarti come ti viene detto), a fare quel che farei io (anche abortire, se lo voglio), e soprattutto devi consegnarmi 'mio' figlio, quando lo partorirai. Come pensare che tutto questo si possa fare gratuitamente, 'per solidarietà', senza un rigoroso contratto? Ma non è tutto. Quando si adotta un nuovo paradigma bisogna trarne le conseguenze. Se è la volontà quella che conta – attuata da un contratto che stabilisce chi è il genitore di un bambino, a prescindere da chi fisicamente lo ha generato –, per quale motivo continuare a mantenere il modello naturale, cioè due genitori, di sesso diverso, e per sempre? Già ora si riconosce la genitorialità indipendente dal genere, ovvero di coppie di persone dello stesso sesso, e già ora sono in vigore leggi (ad esempio in California, dal 2013) per cui un giudice può stabilire che per il «miglior interesse del minore » si può aggiungere un terzo genitore. Manca l’ultimo tassello: la durata del contratto. Per noi è scontato che un figlio è per sempre: da un figlio non si può divorziare, perché il legame biologico non si può rompere, al massimo si può ignorare. È possibile dire al coniuge 'tu non sei più mio marito', e si può divorziare, ma con un figlio no. Al massimo si vive lontani, 'come se tu non fossi mio figlio', ma dai figli non si divorzia. Se, però, si è genitori per volontà, e si è stipulato un contratto, perché il contratto coi figli deve valere per sempre? L’intenzione si può spegnere, la volontà può venire meno, e con essa il solo 'per sempre' su cui si fondano le relazioni umane. Nel gioco mercantile che riduce le persone a cose, questa è la nuova posta, adesso.