È caduta nel fine settimana, proprio come il sisma di cinque anni fa, la ricorrenza del terremoto dell’Aquila, anche se alle 03:32 di una domenica e quindi un giorno prima di quel tragico lunedì 6 aprile 2009. Un quinquennio è passato, e pare ieri: «con la lunghezza di cinque interminabili inverni», avrebbe detto il poeta inglese William Wordsworth 200 anni fa, quasi a rimarcare che il quinquennio segna un ciclo interiore; e, come quelli inglesi intorno all’abbazia di Tintern, di gelidi inverni aquilani sul ventoso altopiano a 800 metri d’altezza, dove sorge la superba città abruzzese.Non sono mai passati questi cinque anni per gli aquilani espropriati della loro città, decentrati nelle new town, privati della consuetudine di vita con le loro case abitate per una vita intera, costretti a aggirarsi nei pochi limitati spazi urbani ridivenuti agibili, stando attenti, nella commovente fiaccolata notturna che c’è stata domenica - coi nomi delle 309 vittime letti e scanditi da altrettanti rintocchi di campana - a non portare il passo oltre le vie sbarrate, oltre le transenne, oltre le costruzioni infagottate da ponteggi, a nascondere qui una stupenda chiesa, qui un sontuoso palazzo gentilizio, qui un’umile ma non meno suggestiva casa antica, luoghi oggi deserti e un tempo animati.Cinque anni, cinque solchi nell’anima. Con un imperativo: jemo ’nnanzi, andiamo avanti, che a sentirlo pronunciare in dialetto aquilano suona strano anche agli abruzzesi, imparentato com’è con le sonorità della parlata umbro-reatina giacché L’Aquila ha sempre avuto un dialetto non esattamente regionale, ma un po’ a parte, più vicino appunto a quello delle contigue aree umbre, altolaziali e marchigiane.Non è una frase da dire a cuor leggero, jemo ’nnanzi. Esprime un tirare avanti e non un lieto procedere. Un tentativo di lasciarsi qualcosa alle spalle. Un farsi forza. Ne esiste una anche più triste variante milanese, tiremm’ innanz , celebre frase pronunciata da Amatore Sciesa condotto al patibolo nel 1851 dagli austriaci, che lo esortavano, per salvarsi, a rivelare i nomi dei compagni, nei moti risorgimentali per la italianità (oggi malamente ridiscussa) del Lombardo-Veneto.Jemo ’nnanzi si è arricchita di una lievissima inflessione ispanica quando l’ha pronunciata Francesco all’udienza generale di mercoledì scorso, allorché il gruppo di azione civica aquilano che si è dato questo nome dopo il terremoto ha chiesto e ottenuto di essere ricevuto dal Papa. Non si è capito bene - ed è stato bellissimo che non si capisse - a causa della frase in cui il Santo Padre ha inserito le due parole, se si trattava di un vocativo diretto al gruppo o di un’esortazione. È stato meglio: le parole che escono dal cuore devono essere svincolate dalla sintassi; regole e sintassi del dolore gli aquilani hanno imparato a praticarle sin troppo dal 2009; e per chi conosce la ruvida asciuttezza degli abruzzesi, la loro contratta afasia nel dar corso verbale a ciò che sentono dentro, e in sintesi la loro dignità e compostezza, forse proprio l’«andare avanti» descrive ciò che prova l’Aquila oggi. Papa Francesco ha affidato «quanti vivono ancora nel disagio» alla protezione della miracolosa Madonna di Roio, venerata in un santuario già mèta di altri pontefici, appena fuori della città, nella frazione di Roio. Questi monti hanno avuto in Giovanni Paolo II un ospite quasi fisso per le sue escursioni, che non sarebbe errato definire fughe semiclandestine verso la libertà, sulla giogaia di monti più vicina alla tomba di Pietro. Mercoledì era il nono anniversario della sua morte. Quante ricorrenze nel dolce e crudele aprile. Terremoti, perdite. Le parole in dialetto sono state le sole a regalare un po’ di luce.A Giovanni Paolo II si deve un’altra escursione vernacolare, nel romanesco stavolta, che vent’anni fa fece il giro del mondo, dopo aver prodotto un boato tra i romani in piazza San Pietro: volémose bene. È una frase che sulle labbra del Pontefice riecheggiava l’evangelico: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi, mentre l’applicazione che se ne fa nella cultura popolare cittadina indica, all’opposto, una sorta di complicità, di arrendevole ammiccamento. E insomma - sia come sia - sentire un Papa dire: ieri volémose bene, e oggi jemo ’nnanzi mette in noi quasi un filo di allegria, perché lo sentiamo parlare la nostra lingua del cuore. E anche di commozione, quando si tratta dell’Aquila, perché nella dura ripartenza dal terremoto, verso una città che tutti ci auguriamo riabitabile, pare quasi di averlo a fianco, a dirci che sta camminando con noi.