martedì 31 maggio 2022
Dall’ordinazione, il 29 maggio di 102 anni fa, a gesti e parole come Papa: ricorre lungo tutta la sua biografia il riferimento a una virtù che considerava determinante per la vita cristiana
Il cardinale Giovanbattista Montini, san Paolo VI

Il cardinale Giovanbattista Montini, san Paolo VI - Ansa

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La Chiesa ha celebrato domenica la memoria liturgica di san Paolo VI ricordando la data in cui il futuro Pontefice ricevette l’ordinazione sacerdotale, a Brescia, il 29 maggio 1920, giorno «solenne» che il giovane Montini aveva trascorso «nella pace tranquilla e superiore», con la consapevolezza che «Dio non vuole altro da noi che ci lasciamo amare, umiliandoci e benedicendolo». Arturo Carlo Jemolo definì Paolo VI «il Papa dell’umiltà», ma su questa fondamentale virtù necessaria al cristiano e ancor più al ministro di Dio, Giovanni Battista Montini aveva annotato alcune acute meditazioni sin dalla giovinezza, già nei mesi antecedenti la sua ordinazione.

Nel settembre del 1919, infatti, come scriveva all’amico e futuro vescovo di Crema Carlo Manziana, percepiva l’acuta sproporzione «d’un simile ministero addossato alla debolezza mia». Montini si riprometteva quindi di maturare e conservare sempre un atteggiamento di profonda umiltà nella sua missione sacerdotale e constatava nei suoi appunti – conservati presso l’Istituto Paolo VI di Concesio, che custodisce gran parte della documentazione relativa al Pontefice bresciano, promuovendo studi e ricerche – quanto sono grandi gli umili, «impassibili, tranquilli e indifferenti, ma vibranti delle più forti impressioni. Il coraggio degli umili è straordinario». «Sarò dunque umile – si prefiggeva il prossimo sacerdote – per fuggir la viltà, sarò dunque amante per non spegnermi», e si proponeva di fare della propria vita una opportuna opera di pacificazione fra uomini che – allora come oggi – «cercano tutto per distinguersi, per dividersi, per separarsi e combattersi». Nel considerare le vicende umane e terrene, per Montini bisognava principalmente «compatire tanto, tanto; quelli in alto perché sono fra pericoli spesso superiori alle loro forze, quelli in basso perché non sanno». Pertanto, colui che sarebbe divenuto papa Paolo VI alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale si era convinto di non poter diventare un uomo di governo, «ma sarò più vicino a Cristo», come osservava nelle riflessioni del 1919, aggiungendo, qualche mese dopo, che non giovava essere religiosi «ex officio» quando non lo si è «ex animo».

All’ottobre 1921 risalgono invece altre note autografe sempre incentrate sull’umiltà, che, per Montini, consisteva nell’avere «Dio per principio, Dio per fine; verità e giustizia, ecco l’u- miltà». In questo senso, nelle vite dei santi si ravvisano le più alte espressioni di tale virtù in quanto «l’umiltà per aver conosciuto e riconosciuto il limite è capace di desiderare e accettare l’infinito », mentre «chi è pago di sé, sicuro di sé, è mediocre infimo, cieco». È interessante pure notare come egli ritenesse l’umiltà intrinsecamente correlata alla carità poiché «l’umiltà vera è il recipiente della carità». Alcuni anni dopo, tra il 1929 e il 1933, Montini, divenuto assistente ecclesiastico generale della Fuci, commentando le Lettere di san Paolo, metteva in rilievo «l’audacia dell’umiltà» dell’apostolo delle genti, da cui Paolo VI avrebbe preso il nome, e considerava quanto l’animo di Paolo fosse lontano dalla falsa umiltà del ministro di Dio «quando solo obbedienza, interesse, impossibilità di cambiare ci lega al nostro dovere. Ogni pretesto ci è buono per ritirare il nostro amore e per credere insanabili le situazioni».

In quegli stessi anni Montini esortava gli universitari a lui più vicini a instaurare con tutti rapporti «improntati a una grande umiltà, a una grande bontà (...) ad una grande sincerità». Anche all’inizio dell’esperienza pastorale nella diocesi ambrosiana, nel giorno della sua consacrazione episcopale, il nuovo arcivescovo di Milano si riconobbe come «un povero, un piccolo figlio della Chiesa». Montini ravvisò un modello di umiltà sacerdotale nella figura del santo Curato d’Ars, ed è alta- mente emblematico, alla luce degli avvenimenti futuri, riportare quello che nel novembre 1959, parlando ai sacerdoti bresciani, il cardinale Montini raccontò loro, ricordando come dopo essere stato creato canonico il Curato d’Ars volle vendere subito la mozzetta regalatagli dal suo vescovo per quella circostanza e offrirne il denaro ricavato alla gente bisognosa. Cinque anni dopo, il 13 novembre 1964, mosso dai medesimi intenti, Montini, divenuto Papa, compì il gesto di deporre la tiara pontificia con cui era stato incoronato affinché fosse venduta e dispose di distribuirne il ricavato ai poveri.

Il 5 agosto 1963, riflettendo sulla sua elezione al soglio pontificio, Paolo VI aveva scritto: «Una cosa comprendo: si tratta d’un favore, non d’un merito. La meditazione comincia con una doverosa professione d’umiltà. È un’avventura, in cui tutto dipende da Cristo». Con questi sentimenti il Papa s’accinse ad affrontare i quindici anni del suo pontificato, convinto che si potesse tenere una carica di alto grado «per bravura; per autorità; o per umiltà, facendo sommessamente meglio che si può il proprio dovere, senza far conto dei risultati e confidando in Dio. Io – scrisse in una sua nota personale del 1965 – scelgo questa via». L’umiltà, dunque, lo caratterizzò nell’esercizio del ministero petrino perché, per Paolo VI, era stata questa la condizione dell’apostolo Pietro, posto da Cristo quale base della Chiesa, «base che tutto sostiene, sta in basso e non in alto, e quasi si nasconde nel terreno sul quale sorge l’edificio». Ma l’umiltà era ben differente dalla viltà e ciò che la distingueva dalla «pusillanimità » per Paolo VI era l’amore per gli altri. Animato da questo spirito di servizio alla Chiesa e agli uomini papa Montini si ripromise di non «nascondere sotto la professione e la coscienza dell’umiltà la viltà, la paura, il disimpegno, la debolezza, lo scetticismo, la fuga del rischio e del sacrificio, l’ipocrisia della vera umiltà, disposta a fallire davanti agli uomini e anche davanti alla coscienza personale».

Lungo tutto il corso del pontificato montiniano molte furono le manifestazioni e i gesti concreti di sincera umiltà, dal sorprendente bacio dei piedi del metropolita Melitone alle stesse esequie di Paolo VI, tenute per la prima volta sul sagrato della basilica di San Pietro, sobrie e semplici, come da allora, dopo di lui, sarebbe stato fatto per i suoi successori. E nel 1968, a conclusione dell’Anno della fede, illustrando il Credo del Popolo di Dio durante un’udienza, Paolo VI pronunciò una sua bella e intensa «Preghiera per conseguire la fede » invocando lui stesso per ogni credente una fede «piena, libera, certa, forte, gioiosa, operosa, umile», che rappresentasse davvero «una continua ricerca, una continua testimonianza, un alimento continuo di speranza». Di questa fede semplice per Papa Montini si nutriva anche la santità che per lui – come aveva osservato in una sua meditazione intitolata appunto «Santità» – altro non è che «un continuo duplice atto di umiltà e di fiducia per disporre l’anima a compiere, come ricevuti in dono, gli altri atti di fede, di speranza, di amore e quelli dell’azione buona e forte esteriore». Nell’ottobre del 2014, beatificando il suo predecessore – di cui, quattro anni dopo, è stata proclamata la santità – papa Francesco riconobbe nell’ «umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa» il tratto caratteristico e distintivo della vicenda umana e spirituale di Paolo VI. «In questa umiltà – affermò allora il Pontefice – risplende la grandezza del beato Paolo VI».

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