La notte di Venezia del 12 novembre, nei video di chi c’era, è una serie di brevi frammenti ripresi da mani spesso tremanti. Luci oscillanti nell’acqua di calli allagate, il fango che preme e viola le soglie delle case. Il sonoro di queste immagini è un forte sciabordio di acqua, come si fosse in mezzo al mare; e schianti di pontili che si spaccano, e sorde imprecazioni in veneziano, e un "Madonna!", come un’invocazione, mentre il video si interrompe. L’acqua tumultuosa che irrompe in via Garibaldi sembra un fiume nell’impeto di una piena rabbiosa. Le onde gonfiate da uno scirocco a cento all’ora sul Canal Grande sbattono come fuscelli le barche contro le rive. Piazza San Marco nella notte, sommersa e deserta in una luce livida, pare morta, mentre suonano angosciose le sirene, annunciando l’imminente picco di marea. Un disastro come nel 1966, dicono quelli che c’erano. Ma non c’erano, nel ’66, gli smartphone e il web, a mostrarci, quasi fossimo lì anche noi, Venezia invasa e sopraffatta. Si rimane davanti allo schermo del pc, attoniti, a guardare la cripta della Basilica sommersa, le poderose colonne e la tomba di marmo di un antico vescovo lambite dall’acqua limacciosa. In alto i mosaici d’oro, e, sotto, la devastazione. Un senso di dolore: come vedendo il volto di una donna bella e amata, che si ricorda sorridente, ora disfatto, illividito, sfregiato. Perché c’è un pezzo di Venezia nel cuore di milioni di persone. Almeno una volta noi italiani ci siamo andati quasi tutti: in viaggio di nozze magari, i più anziani – quante foto in bianco e nero di giovani sposi sulla Laguna, nelle nostre case, in cornici d’argento.
Ci siamo andati in gite scolastiche chiassose e felici, oppure innamorati, felici di perderci fra le calli come in un labirinto magico. Personalmente non dimenticherò mai gli occhi dei figli bambini, la prima volta a Venezia: occhi spalancati, e bocche ammutolite dalla meraviglia. Così come dovevano essere i miei, di occhi, quando mio padre mi portò a otto anni per calli e campielli deserti, in una mattina d’inverno. E mi pareva di essere entrata in un altro mondo, o, forse, caduta dentro a un sogno.
C’è un pezzo di Venezia ovunque, oltre gli oceani, nei posti più remoti, ovunque viva qualcuno che a Venezia c’è stato. Magari in una di quelle rumorose comitive di turisti che la invadono, e che giustamente si vorrebbe regolamentare. Eppure anche il più distratto dei visitatori di un solo giorno, crediamo, oggi in ogni parte del mondo guarda la città ferita, la confronta col suo personale ricordo lucente e lieto, e prova pena.
Quelle gondole fasciate di plastica nera, sbattute contro i muri delle calli deserte; quei vaporetti sempre affollati di voci in ogni lingua, di eccitazione dei nuovi arrivati e risate, ora vuoti e di traverso, contro le banchine. E quanti antichi tesori d’arte, insidiati dall’acqua melmosa. Una marea di fango ha coperto quella che per noi, non veneziani, è una fiaba.
E pensi poi alla gente della città, ai vecchi nelle case allagate o inaccessibili, ai malati. A chi si affanna per fare la spesa per la famiglia, camminando a fatica con l’acqua fino ai fianchi. E a Pellestrina, dove ci sono stati due morti, a Chioggia, alle isole, che nelle riprese dall’elicottero dei Vigili del fuoco sono pure sommerse.
Ma, e il Mose, non ha funzionato il Mose? ci si chiede, stupefatti che riaccada tale e quale ciò che è successo nel ’66. E quanto di responsabilità degli uomini, e quanto di avversità naturale eccezionale non sai sia il peso, nel disastro di oggi. Solo, le immagini della notte del 12 novembre, quei video malfermi in mezzo all’acqua che sale inesorabile, mettono addosso un’inquietudine, quasi un’eco di annunciata apocalisse. Resisterà, Venezia, la fiaba, la splendida, a eventi climatici violenti e ormai così frequenti? Sapranno gli italiani conservare per i loro nipoti la magnificenza di San Marco e di cento altre chiese, e la purezza, all’alba, dei vicoli stretti della Giudecca, con i panni stesi a asciugare contro a una fetta stretta di cielo chiaro?
Quello splendido volto, ferito. Che Venezia si risollevi, che la sua gente sia forte, preghi; che la città bella e quasi impossibile, come un sogno, torni a splendere nei nostri occhi, e in quelli dei figli, e dei figli dei figli che ci porteremo.