Il lamento per le devastazioni delle città di cui ci parla Isaia può anche diventare il nostro canto di lutto oggi. La Bibbia continua a dire cose nuove se siamo capaci di far rivivere le sue parole dentro le nostre ferite. Il giorno della storia è il sabato santo: è lì che possiamo incontrare gli uomini e le donne, e sperare insieme in una domenica non vanaGiobbe 1, 18-21«Sì, è stata devastata di notte. Ar-Moab è stata distrutta, è stata annientata di notte, Kir-Moab è stata distrutta. Sale la figlia di Dibon sulle alture per piangere, sul Nebo e su Màdaba Moab innalza un lamento. Ogni testa è rasata, ogni barba è tagliata. Nelle sue strade si indossa il sacco, sulle sue terrazze e nelle sue piazze si fa lutto e ci si scioglie in lacrime, … salgono grida strazianti. Sì, l’urlo è risuonato per tutto il suo territorio» (Isaia 15,1-8). Siamo giunti al ciclo degli oracoli e delle lamentazioni di Isaia per le città e per le nazioni devastate di Babilonia, Assur, Moab, Damasco, Egitto, Etiopia, e non c’è un momento, un tempo-kairos più appropriato del nostro tragico tempo. Oracoli e lamentazioni più grandi del loro tempo e dei loro autori, e così ci possono donare parole grandi e estreme anche per piangere oggi sulle nostre Amatrice, Arquata, Accumoli, sulla nostra Siria, e sulle tante città e nazioni dove le parole del profeta continuano a diventare sangue e carne, a incarnarsi. Quelle strade e quelle piazze distrutte e ricoperte dalle macerie sono oggi il miglior luogo dove poter leggere e meditare la Bibbia e i profeti: soltanto lì le possiamo capire senza turbarci, scandalizzarci, e accoglierle come dono di parole vere quando le nostre non ci sono più perché vogliono solo tacere: «I loro bambini sfracellati davanti ai loro occhi, saccheggiate le loro case; urleranno le iene nei palazzi, gli sciacalli nelle case» (13, 18,21-22).
Quei fatti storici, quelle devastazioni di cui ci parla Isaia, sono ormai troppo distanti, incerti, rarefatti, forse smarriti per sempre. Ma il suo canto di lamento e di lutto può diventare, diventa, il nostro canto di lutto per le nostre città devastate e per i loro abitanti che non ci sono più. Per una legge misteriosa di reciprocità, le parole bibliche fanno diventare più umane le nostre e il nostro dolore-amore le fa restare vive e fruttificanti, fa dire loro cose sempre nuove. È una legge vera sempre, ma resta latente finché un evento non l’accende, quasi sempre nei giorni del grande dolore. Quando improvvisamente capiamo con l’intelligenza della carne che noi abbiamo bisogno della Bibbia per essere più umani e che la Bibbia ha bisogno di noi per restare viva. Gli evangelisti hanno cambiato il mondo anche perché furono capaci di dare nuove parole alla profezia dell’Immanuel, al Giordano, al Mar Rosso, al deserto, facendo dire cose nuovissime a quelle antiche parole. Se ogni generazione di credenti in quella stessa parola biblica non trova nuove parole vive per ridire qui e ora Moab, Damasco, per i deserti, per i monti Tabor e Moria, la Bibbia non trasforma la nostra storia e non ci salva, diventa una ideologia tra le tante, e nell’ipotesi più felice serve a fare da corredo alla liturgia o a essere usata per la meditazione personale - ed è troppo poco.
I grandi dolori collettivi, quando non ci fanno peggiori, possono diventare levatrici di nuovi evangeli. Dopo questi momenti il mondo inizia a parlare diversamente e in esso anche le parole bibliche parlano di più, hanno più verbi e più aggettivi. In questi giorni è possibile capire diversamente e di più la terra, la fede, Dio. E scoprire, ad esempio, che nel mondo ci sono milioni di Giobbe e di Isaia che continuano a intonare i loro canti, a scrivere i loro libri, a gridare le loro parole, e che non hanno mai letto neanche una riga di Bibbia. E poi restare senza fiato per la sorpresa. La Bibbia sarebbe troppo piccola se parlasse soltanto per chi la legge e la conosce, se amasse solo chi la ama. Se anche una sola persona passa oggi per le rovine delle nostre città, raccoglie le urla delle mamme e dei padri e in essi riesce a rivedere Giobbe, Agar, l’Abbandonato, quella sola persona dona alla parola biblica la possibilità di continuare ad amarci e salvarci, ad amare e salvare anche chi non conosce e non ama quella parola. Anche così la buona novella diventa universale, non una esperienza striminzita da consumarsi nell’angusto club degli eletti. La parola è sale, è lievito della terra, anche se la terra non lo sa. Senza prediche, senza parlare di religione né di Dio, ma semplicemente dando un nome diverso ai segni che incontra, soprattutto al dolore muto degli altri. Qualcosa di simile, anche se non identico, accade con la poesia e con l’arte, che quando sono oneste non fanno altro che dare nomi nuovi alle cose per chiamare il dolore del mondo. La prima, e forse unica, funzione-dono della parola è chiamare le cose, e chiamandole risorgerle.
Se così non fosse, se la Bibbia non avesse assunto la vita più vera degli uomini e delle donne (e niente è più vero sulla terra del nostro dolore, soprattutto quello morale e spirituale), un giorno nessuno avrebbe potuto scrivere né pensare che la parola era diventata carne umana, e che lo era diventata veramente, per sempre, per tutti. Se sganciamo l’evento dell’incarnazione della parola dall’umanità che ha sofferto (soffre) e amato (ama) in attesa di parole per chiamare il proprio dolore-amore, perdiamo quasi tutto del significato storico e salvifico della rivelazione biblica. Il Dio della Bibbia allora patisce con noi. Era lì, tra le macerie, a scavare a mani nude, insieme ai pompieri, accanto ai padri e alle madri, a piangere nei funerali, a chiedere con e come noi "perché" - come fece quel giorno sulla croce, e come continua a fare ogni giorno, per sempre. Le domande che nascono dal nostro dolore estremo "costringono" Dio a essere all’altezza della parte più alta della sua creazione, talmente alta e nobile da stupire anche il suo creatore. Il Dio biblico si sorprende di vedere un padre che non muore davanti alla bara della sua bambina; si deve sorprendere, perché quella forza morale è della stessa natura di quella che ha creato il mare, il sole, la luna, le stelle. E poi ringraziarci quando abbracciamo, consoliamo, mescoliamo le nostre lacrime con quelle dei nostri amici feriti, abbracci che Lui, nella sua onnipotenza, non può fare, se non tramite il nostro corpo. E se non si stupisse nell’assistere a questi atti di amore-dolore infinito, allora il Dio dell’universo non sarebbe quello di cui ci parla la Bibbia, sarebbe meno umano di noi. Invece YHWH impara dalla storia, scopre che la lettura più bella durante i funerali è quella pagina sacra scritta dalle lacrime dei genitori, e da quelle lacrime apprende qualcosa che non sapeva già, che non poteva sapere finché quella mamma non l’ha vissuto.
Per credere in un Dio onnipotente e perfettissimo non c’era bisogno della Rivelazione, bastava il naturale senso religioso o idolatrico. La Bibbia e poi l’Incarnazione ci hanno rivelato un’altra idea di onnipotenza e di perfezione, ci ha svelato un altro Dio, che si sorprende e si commuove nel vedere un figlio tornare a casa, che si sdegna per la nostra cattiveria imprevista, che rimane stupito per la fedeltà estrema di Abramo e per l’infedeltà estrema di Giuda. Molti problemi della nostra teologia - e del nostro ateismo - dipendono dall’aver costruito un’idea di Dio astratta, perché troppo distante dalla Bibbia e dalle ferite dalla storia. Il Dio che conosciamo nella Bibbia ha sempre avuto bisogno della cooperazione libera degli uomini, degli alberi (fico), degli animali (asina di Balaam), rivelandoci una onnipotenza che ha bisogno del "sì" di una giovane donna per poter diventare bambino. Il dio astrattamente onnipotente delle filosofie, di alcune teologie e di qualche catechismo, produce soltanto un vano senso di onnipotenza nei suoi credenti e l’ateismo di chi gli chiede conto della figlia di Iefte, di Ismaele, di Dina, di Esaù, dei beniaminiti, delle due Tamar, di Uria l’ittita, di Abele, di Rachele che piange e non vuole essere consolata perché i suoi figli non ci sono più, della madre dei Maccabei, di un crocifisso che non scende dalla croce e che muore veramente, quindi senza la certezza che sarebbe risorto - anche se le varie forme di gnosi hanno sempre cercato (e cercano) di mostrarci un Cristo che faceva finta di morire, e che quindi faceva anche finta di risorgere.
Quel dio astrattamente onnipotente non può che implodere di fronte ai tanti Giairo e alle tante vedove di Naim che non vedono i loro bambini morti risorgere, di fronte alle Marta e Maria che non riottengono il fratello dalla tomba, davanti ai crocifissi che non giungono al "primo giorno dopo il sabato". Il cristianesimo diventa pieno e grande umanesimo finché sa stare (stabat) dentro il sabato santo, senza saltare troppo velocemente dal Golgota al sepolcro vuoto. Se dimentichiamo che dopo il venerdì c’è il sabato (non la domenica), non sappiamo chiamare per nome i nostri dolori, i dolori degli altri, costruiamo domeniche artificiali, e trasformiamo la passione in una fiction che non salva nessuno. È il sabato il giorno della storia umana: il tempo del figlio morto, il tempo delle donne che ungono il corpo di un crocifisso, il tempo degli abbracci. È solo qui che possiamo veramente incontrare gli uomini e le donne del nostro tempo, ungere le nostre e loro ferite, piangere con i nostri compagni e compagne di viaggio, imparare la fraternità del sabato santo. E poi, insieme, attendere e sperare in un altro giorno: «In quel giorno avverrà che il Signore ti libererà dalle tue pene e dal tuo affanno» (Isaia 14,3).l.bruni@lumsa.it