C’è una nota che accomuna molte forme di malessere non inevitabile che affliggono la nostra società: l’urgenza di rieducare le nostre passioni e i nostri sentimenti. Una passione da rieducare presto è l’invidia, tra le più devastanti in ogni cultura, molto pericolosa nei tempi di crisi. Le culture del passato, a differenza della nostra, conoscevano i disastri prodotti dall’invidia non curata e gestita, e così avevano sviluppato un’etica idonea a orientarla al bene o quanto meno ad arginarla. La regola d’oro – «fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te» – può anche essere letta come una cura preventiva dell’invidia. Non a caso è posta dalla Bibbia al centro della prima fraternità-fratricidio di Caino.
La nostra civiltà, però, fa molta fatica a capire l’invidia. La confonde con un’idea errata di competizione (battere gli altri), la quale viene addirittura presentata come l’unica strada per orientare al bene comune la natura invidiosa della persona. Non la vediamo dietro alle crescenti invocazioni della 'meritocrazia', cioè del merito nostro e del demerito (o 'fortuna') degli altri. Non la riconosciamo dietro denunce e querele, e così non facciamo regole per bloccare sul nascere troppi processi evidentemente 'invidiosi', che assorbono immense energie morali ed economiche di cittadini e tribunali. Non la smascheriamo nella corsa al 'consumo posizionale', che ci fa indebitare per raggiungere i livelli di consumo di colleghi e vicini e di casa, un’invidia sociale che la pubblicità tende ad amplificare e il mercato a sfruttare per vendere le sue merci, aumentando il Pil e l’infelicità – eliminare la componente 'invidiosa' del Pil sarebbe un primo passaggio verso una misurazione del benessere reale di un Paese.
Eppure l’invidia è molto semplice da individuare: è soffrire per il bene altrui, gioire per il suo male, e poi agire per creare quel male o ridurre quel bene. In tedesco esiste una parola – schadenfreude – che esprime esattamente quel sentimento di compiacimento che può nascere in noi quando qualcuno ci comunica una brutta notizia che lo riguarda. Perché però si cada nel vizio, e spesso dal vizio si passi al danno e persino al reato, occorre che la passione generi azioni. Non è il semplice 'desiderio' della 'roba d’altri' a violare il comandamento. Ce lo suggerisce anche il significato del verbo ebraico hamad : nel Decalogo lo traduciamo con 'desiderare', ma la sua semantica indica l’atteggiamento di chi delibera di agire per ottenere ciò che desidera (male). In realtà, se un sentimento o un pensiero cattivo non viene combattuto sul nascere, prima o poi si traduce anche in opere, parole, omissioni.
Nell’invidia esiste poi un fondamentale meccanismo di reciprocità negativa. Poiché so che tu stai provando invidia per il mio successo, anche io, se sono invidioso, provo un piacere subdolo a raccontarti le mie vittorie (e a tacerti le mie sventure). E così si generano spirali di mali relazionali, di cui siamo ogni giorno spettatori e protagonisti, circoli viziosi spezzati solo dalla presenza di persone magnanime. La presenza di persone magnanime è un grande dono per una comunità, perché, essendo antiinvidiose, moltiplicano le gioie e riducono i dolori. Ma non si diventa magnanimi senza una profonda vita spirituale e quindi un costante esercizio dell’ agape – sia l’
eros che la
philia possono produrre invidia, solo l’agape è per natura anti-invidiosa. La famiglia è, o dovrebbe essere, il principale luogo dove si svolge il gioco di specchi virtuoso dell’anti-invidia. Una delle più grandi forme di povertà del nostro tempo è quella che vivono i tanti che non hanno persone anti-invidiose con cui condividere le grandi sventure e le grandi gioie dell’esistenza.
L’invidia, come già ricordava Aristotele, si sviluppa solo verso i nostri pari. Da studenti non si è invidiosi dei professori, ma dei compagni. Non si invidiava l’imperatore, né il padrone. Verso i 'superiori' scattano altri sentimenti: rabbia, ammirazione, imitazione e magari speranza di diventare un giorno come loro. Non si invidiano i genitori, ma i fratelli. Un segnale inequivocabile di invidia è la sindrome dell’«anche se…», quella nota negativa con cui l’invidioso termina ogni apprezzamento («è un’ottima persona, anche se…»). Le società castali, dalle civiltà antiche alle grandi imprese capitalistiche, sono anche un tentativo di limitare lo sviluppo dell’invidia.
L’ideale di ogni società gerarchica perfetta è la costruzione di organizzazioni sociali dove i pari siano il meno possibile, e ognuno abbia solo superiori e inferiori. Gli esseri umani fanno fatica non tanto a comandare o ubbidire, ma a rapportarsi positivamente con i pari. Le società globalizzate e più ugualitarie aumentano moltissimo il numero dei pari, e quindi la possibilità dell’invidia. Ma non dobbiamo dimenticare che quando ci confrontiamo con chi sentiamo migliori di noi, assieme alla possibile invidia sorge spesso anche la stima e il desiderio di cooperazione. Quando un mio pari ottiene un miglioramento e siamo in un contesto statico, dove la 'torta' è data ed è una sola, quel suo vantaggio può facilmente tradursi in un mio svantaggio, in un 'gioco a somma zero' (dove i guadagni dell’uno sono uguali alle perdite dell’altro). E qui scattano il sentimento e spesso le azioni, dell’invidia. Ma in realtà le relazioni sociali che sono oggettivamente un 'gioco a somma zero' sono soltanto una piccola minoranza. La vita in comune, quando funziona, è invece una grande fabbrica cooperativa, un insieme di relazioni di mutuo vantaggio per crescere insieme. L’invidia coltivata ci fa allora perdere molte occasioni di mutuo vantaggio, perché ci porta a leggere soggettivamente il mondo come un luogo di continuo confronto rivale e distruttivo con gli altri, e non come un insieme di opportunità di reciprocità. Ecco perché molto spesso l’invidia è una scorciatoia sbagliata in un rapporto nel quale non siamo stati capaci di vedere e trovare una buona reciprocità.L’invidia può essere una stima che non giunge a maturazione per insufficiente magnanimità. Nei tempi di crisi si accentua la tendenza a leggere i rapporti con gli altri in termini rivali e invidiosi, come 'giochi a somma zero'. Le crisi alimentano le invidie e da queste sono alimentate. È quindi in questi tempi che l’educazione all’anti-invidia, alla magnanimità, alla stima dei nostri pari è particolarmente preziosa, cominciando come sempre dalla famiglia e dalla scuola per arrivare alle istituzioni (sistema fiscale, schemi d’incentivi nelle imprese …), che non devono generare il loglio dell’invidia ma il buon grano della cooperazione.