I cooperanti morti in Etiopia, l’Italia di cui vantarsi
martedì 12 marzo 2019

Per chi vola nell’Africa subsahariana, l’hub aeroportuale di Addis Abeba, è come il capolinea del '64' alla Stazione Termini. Missionari, volontari, cooperanti lo usano frequentemente, proprio come chi scrive. Sapere che domenica mattina è precipitato un Boeing dell’Ethiopian Airlines ha suscitato profondo dolore, commozione e cordoglio. Eppure, proprio perché i fatti e gli accadimenti della vita esigono sempre e comunque una seria riflessione, un sapere più alto, un’intelligenza morale che ponga un freno alla rassegnazione, vi sono alcune considerazioni sulle quali soffermarsi.

Anzitutto, il fatto che abbiano perso la vita 149 passeggeri e 8 membri d’equipaggio, tutte persone che avevano ancora tanta voglia di vivere. Tra le vittime, come è ormai ben noto, figurano numerosi operatori umanitari (alcuni con le famiglie al seguito) di varie nazionalità, pronti a viaggiare e vivere lontano dalle proprie case per contribuire a rendere il mondo un posto migliore. Nel lutto, non possiamo fare a meno di ricordare i nostri 8 connazionali scomparsi, tra cui Paolo Dieci, figura storica della cooperazione italiana allo sviluppo; Pilar Buzzetti, che prestava servizio al World Food Programme ( Wfp); Virginia Chimenti, anch’essa del Wfp; e tre componenti di una Onlus bergamasca, Africa Tremila. Si tratta di quella società civile, valore aggiunto del nostro Paese, di cui – chissà perché – si prende coscienza solo in occasione di sequestri o di vicende tragiche e luttuose come questa. È il caso di sgombrare il campo da ogni genere di malinteso o pregiudizio nei loro confronti, non foss’altro perché queste anime, a differenza di certi benpensanti, hanno aiutato e aiutano davvero gli africani 'a casa loro'.

Stiamo parlando del valore aggiunto di un’Italia che si è fatta onore, in questi anni, nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo, affermando la logica della solidarietà, in netta contrapposizione con la 'globalizzazione dell’indifferenza' tante volte, giustamente, stigmatizzata da papa Francesco. Per questi nostri connazionali caduti nell’adempimento del loro dovere, come anche per le altre vittime della sciagura di Addis Abeba, è importante celebrare la memoria, nella consapevolezza che la vita umana rimane un grande mistero, soprattutto quando è messa a dura prova dal dolore.

Sorge comunque il serio dubbio che la loro morte, in riferimento alle responsabilità del disastro aereo, non possa essere intesa come una sorta di fatalità, manifestazione, per così dire, di un destino ineluttabile. Stando alle prime notizie, quanto è avvenuto domenica al Boeing 737-Max ricorda molto le dinamiche di un altro incidente occorso cinque mesi fa in Indonesia ad un altro 737-Max. In quel caso, le indagini avrebbero appurato che il sistema computerizzato di bordo, destinato ad evitare lo stallo, per ben 26 volte in dieci minuti aveva automaticamente diretto l’aeromobile verso il basso, costringendo il comandante ad intervenire manualmente.

Poi l’impatto fatale in mare. Domenica, è si è ripetuta probabilmente la stessa cosa, subito dopo il decollo da Addis Abeba. Tutto sarebbe dipeso da un software introdotto solo nell’ultima versione del 737 per alleggerire il lavoro dell’equipaggio, correggendo il profilo di volo in base ai dati dei sensori. La Boeing si è difesa in un comunicato affermando che l’aereo in questione 'è sicuro come qualsiasi altro apparecchio'. La Società statunitense ha poi sottolineato come il manuale di volo offrisse tutte le indicazioni per risolvere rapidamente le possibili anomalie nell’apparato anti-stallo.

Una vicenda certamente controversa, ora oggetto d’investigazione da parte della Federal Aviation Usa, l’autorità che ha certificato il velivolo e tutte le procedure per la sua gestione. Sta di fatto che la stragrande maggioranza dei piloti che volano sul 737-Max – e questo è il dato sconcertante – avrebbe lasciato intendere di non essere stata istruita sulla gestione del sistema e su come comportarsi in caso di anomalie. Qualcuno penserà che viaggiare a quelle latitudini è sempre rischioso. Domandiamoci, piuttosto, come mai, la cooperazione internazionale ha bisogno delle sue vittime per essere raccontata.

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