martedì 10 settembre 2024
L'agente patogeno fa parte dei virus influenzali. In Cambogia muore una ragazza venuta a contatto con animali infetti. Negli Usa il primo contagio interumano. Faremo tesoro della lezione del Covid?
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Prendere l’influenza è un’esperienza comune. L’infezione si ripresenta di anno in anno nella stagione fredda. Viene considerata un malanno banale per la sua sintomatologia spesso non clamorosa e di breve durata (pochi giorni di febbre, dolori diffusi, mal di gola, tosse), anche se coinvolge un gran numero di persone. Ma è un errore: in realtà è una malattia insidiosa, benché le epidemie influenzali raramente provochino un’elevata mortalità. Questi virus ci accompagnano da lungo tempo perché la loro presenza è molto antica. Essi appartengono alla famiglia degli Orthomyxoviridae, che comprende 7 generi di virus a Rna, tra i quali il più comune è il tipo A, quello associato alle epidemie influenzali stagionali. È estremamente mutevole per l’estrema variabilità del suo materiale genetico, in grado di conferirgli una maggiore “astuzia biologica” nell’evitare le risposte del sistema immunitario. Per tale motivo questi virus vengono classificati in sottotipi in base alla combinazione di due proteine che hanno sulla loro superficie: l’emagglutinina (H) e la neurominidasi (N).

Un particolare virus influenzale altamente patogeno (cioè con grande capacità di indurre malattia grave ed elevata mortalità), il sottotipo H1N1, è stato all’origine della prima e più grave pandemia del Novecento, la Spagnola, che tra il 1918 e il 1919 colpì in tutto il mondo oltre 200 milioni di persone con una mortalità stimata di circa 50 milioni di malati. Nel Ventesimo secolo si sono verificate altre due importanti pandemie influenzali, sia pure meno severe ed estese: nel 1957-1958 l’Asiatica, dovuta al sottotipo H2N2, e nel 1968 l’Hong Kong, causata dal sottotipo H3N2, entrambi virus discendenti da quello della Spagnola. Perché dobbiamo occuparci e preoccuparci oggi dei virus influenzali? Le più recenti pandemie (quella appena passata di Covid-19, che ha letteralmente sconvolto l’esistenza di miliardi di persone in tutto il mondo provocando, soprattutto prima che fosse messo a punto a tempo di record un vaccino efficace in grado di scongiurare l’infezione, un’alta percentuale di morti tra i malati più fragili, e le due precedenti, quella di Sars nel 2002-2003 e quella di Mers nel 2012-2014) sono state causate da Coronavirus, agenti virali assai differenti da quelli influenzali. Nonostante il recente allarme dell’Oms relativo all’incremento epidemico in Africa e alla progressiva diffusione al di fuori del continente africano del vaiolo delle scimmie (Mpox), a detta di molti scienziati però, è possibile – anzi, probabile – che in un prossimo futuro sia ancora un virus dell’influenza a causare una grave pandemia. Potrebbe essere il sottotipo virale H5N1, responsabile della cosiddetta “influenza aviaria”, altamente infettivo negli uccelli selvatici e domestici (soprattutto i polli degli allevamenti intensivi).

Identificato per la prima volta nelle oche del sud della Cina nel 1996, si è andato progressivamente diffondendo in diverse nazioni asiatiche a partire dal 2003 e poi, tra il 2020 e il 2022, mutato nel nuovo sottotipo H5N8, anche in Europa e negli Stati Uniti. Oggi è un sorvegliato speciale per diversi motivi. È oggetto di attenzione prima di tutto per la sua alta patogenicità, poi perché ha iniziato a passare dagli uccelli ad altre specie di animali (soprattutto mammiferi, come i procioni, le volpi, gli orsi) sino a contagiare quest’anno anche le mucche da latte, e infine perché negli ultimi anni si sono registrati i primi casi di contagio nell’uomo. In particolare tra gli addetti nel settore lattiero-caseario, ma non solo, come dimostra la morte per aviaria avvenuta pochi giorni fa di una ragazza cambogiana di 14 anni. Ancora più preoccupante il primo caso di influenza aviaria senza esposizione ad animali ammalati o infetti segnalato in Missouri a fine agosto e reso noto dalle autorità sanitarie americane il 7 settembre: se confermata, sarebbe la prima infezione interumana. L’ipotesi più probabile è che il virus sia passato dagli uccelli selvatici ai bovini per poi contagiare l’uomo. Che il virus dell’aviaria potesse trasmettersi all’uomo (tecnicamente questo passaggio è detto spillover) era già stato dimostrato a partire dal 1997. Quello che più preoccupa gli scienziati però è che si sono evidenziati anche salti occasionali dalle mucche infette ai gatti, il che suggerisce che il consumo da parte dei felini domestici di latte crudo proveniente da animali infetti sia stata la via di trasmissione più probabile. In effetti materiale genetico del virus dell’aviaria è stato ritrovato nel latte non pastorizzato in vendita in alcuni negozi statunitensi. Le autorità sanitarie hanno comunque rassicurato i consumatori perché è verosimile che il processo di pastorizzazione inattivi il patogeno, che quindi non sarebbe più infettivo. A ogni buon conto l’Oms ha raccomandato di non bere latte bovino crudo, ma di assumerlo solo dopo bollitura.

Un altro elemento che allarma infettivologi ed epidemiologi è che si è di fronte a un’epidemia multi-ospite, perché il contagio ha potuto avvenire per un salto di specie dagli uccelli ai mammiferi e poi da questi all’uomo. Elementi rassicuranti sono che le infezioni di influenza aviaria nell’uomo restano sporadiche e che, a differenza di quanto avviene per i ceppi di influenza stagionale, le persone possono contrarre l’influenza aviaria solo se esposte a diretto contatto con animali infetti.

Per potersi trasmettere da uomo a uomo il virus deve subire numerose mutazioni. Sino a oggi non era sembrato in grado di evolversi in modo tale da potersi diffondere facilmente da una persona all’altra, perché attualmente non riesce a entrare nelle cellule epiteliali dell’apparato naso-buccale. La storia evolutiva microbiologica insegna che mutazioni così radicali da renderlo capace di diffondersi da persona a persona potrebbero richiedere un adattamento che porterebbe alla riduzione di gran parte della sua virulenza, causando una malattia solo con sintomi lievi. Viceversa, se invece acquisisse la capacità di trasmissione interumana mantenendo un elevato tasso di diffusione e di letalità (ora l’influenza aviaria porta a morte la metà dei soggetti malati) allora ci troveremmo di fronte al pericolo di una pandemia potenzialmente devastante. È un timore a cui gli scienziati preferiscono non pensare, ma che comunque non deve coglierci impreparati sul piano sanitario. Per evitare il rischio di una nuova pandemia è necessaria una sorveglianza rigorosa per contrastare l’influenza aviaria, monitorando la situazione epidemica non solo negli uccelli ma anche e soprattutto negli allevamenti di bovini e negli alimenti che ne derivano, latte e carne. Bisogna inoltre cominciare a fare controlli, a campione, anche nell’uomo.

Esistono terapie efficaci contro l’aviaria ed è possibile utilizzare un vaccino mirato? In laboratorio i modelli di animali esposti all’infezione hanno dimostrato che il trattamento con alcuni farmaci antivirali (oseltamivir e zanamivir) limitano la replicazione virale migliorando la sopravvivenza degli animali, per cui l’Oms raccomanda l’uso di questi farmaci come terapia nei pazienti infetti e come profilassi per i soggetti a rischio.

Nel febbraio di quest’anno sono stati approvati dall’Ema – l’Agenzia europea dei medicinali – due vaccini specifici per prevenire l’infezione dell’aviaria e l’Unione Europea in giugno ha concluso un maxi-accordo con una società farmaceutica inglese per la fornitura in 4 anni di 665mila dosi di un vaccino contro l’aviaria per contenere – se necessario – i casi di contagio umano, destinate a proteggere dal virus i soggetti a rischio, onde evitare uno scenario simile a quello vissuto negli scorsi anni con il Coronavirus. Sono coinvolti nell’operazione 15 Paesi europei (l’Italia per ora non è compresa, ma potrà esserlo in futuro). Uno di questi, la Finlandia, nonostante l’assenza sul suo territorio di casi umani, ha già iniziato a procedere con la vaccinazione preventiva contro l’aviaria dei lavoratori a stretto contatto con gli animali. Una decisione suggerita soprattutto dai rischi associati agli allevamenti intensivi di animali da pelliccia, visoni e volpi, che si sono dimostrati molto vulnerabili all’aviaria, tanto che nel 2023, per prevenire la diffusione epidemica dell’infezione, erano stati abbattuti oltre 450mila esemplari di questi animali.

Oggi quindi abbiamo a disposizione validi vaccini antinfluenzali che permettono di contrastare efficacemente il rischio di ammalarsi sia delle forme più comuni (quelle stagionali) sia di quelle più rare e insidiose (come potrebbe diventare l’aviaria). Devono però essere “aggiornati” ogni anno perché i virus influenzali variano continuamente.

Ci sarà mai un vaccino valido per contrastare tutte le diverse varianti? Difficile dirlo. Probabilmente dovremo rassegnarci a convivere con questi virus. Certamente però potremo farlo meglio che in passato. Anche nei confronti della prossima possibile pandemia influenzale non dovremo farci cogliere impreparati per limitare, proprio con la vaccinazione, la sua diffusione e la sua mortalità.

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