Possiamo leggere l’azione del coronavirus sulle nostre vite come una metafora? In effetti, si presta bene a rappresenta la situazione di stallo in cui da tempo si trova il mondo occidentale, la sua difficoltà a misurarsi con i rischi e le sfide di questo secolo. Un mondo libero, che però si trova a rinchiudere i suoi abitanti fisicamente, ma anche psicologicamente, ostaggi delle proprie paure. Un mondo ricco, ma diventato più attento a non perdere il benessere raggiunto che disposto a investire sul futuro, oltre che poco capace di ridurre le diseguaglianze e dare prospettive alle nuove generazioni.
Un mondo in cui si vive sempre più a lungo, ma maggiormente intimorito dai costi dell’invecchiamento che impegnato a dar valore agli anni in più. Un mondo sempre più mobile, fatto di connessioni e flussi, ma allo stesso tempo sospettoso verso chi si affaccia all’esterno, ben disposto a offrire consenso a chi propone di alzare muri. Un mondo che si dipinge di verde, ma dietro la facciata fatica a cambiare le proprie abitudini, at transitare verso un’altro modello socio– economico e a ridurre la propria impronta ecologica. E ora, come per contrappasso, ci troviamo più fragili di fronte a un nemico invisibile che sfrutta a proprio vantaggio le nostre debolezze: l’essere diventati protagonisti e comprimari di un mondo invecchiato dentro, più diviso e più sospettoso, indebolito dalle polveri sottili, incapace di un confronto costruttivo con l’altro. Il coronavirus potrà anche andarsene, ma ci lascerà con la parte peggiore di noi stessi. Messi a nudo di fronte all’evidenza di un modello di vita non autentico e non più sostenibile.
E perché “tutto torni come prima” dovremmo allora, sì, indossare la maschera prima ancora che la mascherina, per continuare a recitare la nostra parte in una rappresentazione sempre più divergente da ciò che vorremmo essere. Il film “L’Angelo sterminatore” di Luis Buñuel, uscito nelle sale nel 1962, aveva anticipato la condizione di un mondo ricco che si trova autorecluso senza capirne bene il motivo; frenato da un nemico invisibile interiore che impedisce di uscire, di tornare alla quotidianità e allo svolgimento delle usuali attività. La situazione, nella pellicola del grande regista ispano–messicano, geniale maestro del surrealismo, viene sbloccata quando le persone si rimettono esattamente nella posizione in cui si trovavano prima dell’autoreclusione. Si scoprirà alla fine che si tratta solo di una soluzione effimera, che imprigiona all’interno di un rito vuoto. Il coronavirus non è una metafora, ha un impatto concreto sulla nostra realtà.
Non è un Angelo sterminatore dell’Apocalisse, ma, come nel film di Buñuel, è in grado di rivelare il nemico dentro di noi che tiene in ostaggio le nostre vite e non potrà essere semplicemente sconfitto da un vaccino da iniettare. Per davvero superare questa crisi da Covid– 19 non ci basterà, allora, migliorare le condizioni di sicurezza sanitaria, ma dovremo avere il coraggio di gettare del tutto la maschera, di avvicinarci di più agli altri, di collaborare di più, di procedere più compatti pur nel tempo del distanziamento fisico, dunque in modo nuovo. E dovremo soprattutto decidere – uscendo, per lasciarci alle spalle illusorie sicurezze passate – che cosa davvero vogliamo, dove vogliamo andare, che cosa vogliamo assieme essere e fare.