Forse non tutti si saranno chiesti, prima dell’esplosione dell’epidemia che ora ci attanaglia, perché un filmato o una notizia che rapidamente rimbalza da un angolo all’altro della rete viene definito “virale”. In effetti, la crescita esponenziale delle condivisioni, di contatto in contatto, giorno dopo giorno, ricorda in maniera strabiliante ciò che accade nel corso di un’infezione virale. Ma se nell’etereo mondo della rete i contatti sono virtuali, nel mondo reale i contatti sono fisici. Ne consegue che, se vogliamo rallentare la diffusione del contagio, dobbiamo evitare il contatto tra esseri umani. Lo stiamo sperimentando da settimane. Ma che la cosa sia più semplice a dirsi che a farsi è comprensibile: il distanziamento sociale è contro natura, essendo noi biologicamente programmati e culturalmente allevati per essere “animali socia-li”, come si è già detto altrove.
Non si possono dunque condividere le prese di posizione così radicalmente contrarie alle misure adottate dal Governo da parte di chi è giunto a lamentare «la perdita della libertà come neppure nel Cile di Pinochet», come si è sentito dire e ripetere anche da fonti autorevoli. Le restrizioni alla nostra vita quotidiana di questi giorni non possono essere accostate, neppure lontanamente, alla privazione della libertà sotto un regime totalitario. Esse non sono strumento di un’ideologia, bensì procedure scientificamente giustificate e necessarie. Questo dato di fatto è assorbente e sufficiente a spegnere sul nascere qualunque alito di inutile e perniciosa polemica. L’accostamento, sebbene improprio, può tuttavia essere utile stimolo per soffermarci a considerare il valore della libertà. Riflessione quanto mai necessaria in questi tempi, che vedono svanire le testimonianze viventi degli anni più bui del secolo scorso, per il nostro Paese e non solo. Ancor più per i nostri figli, nati dopo la caduta del Muro di Berlino e abituati a girare per l’Europa senza conoscere confini, è un’opportunità unica, per quanto certamente non voluta né auspicabile. Ora che dobbiamo portare con noi una sorta di lasciapassare anche solo per uscire da casa e fornire una valida giustificazione ai controlli dell’autorità, ora che siamo costretti a lunghe code ordinate davanti ai negozi di prima necessità, ora che non possiamo più neppure prendere un caffè con un amico, ripensiamo a quando la perdita della libertà non era frutto di misure sanitarie di emergenza ma volontà di controllo sulla vita quotidiana di ciascun cittadino.
Raccontiamo ai nostri figli che un regime che ancora oggi annovera nostalgici persino tra i giovani – ma come è possibile avere nostalgia di ciò che non si è vissuto? – puniva come sediziosi gli assembramenti di tre persone, per evitare che si spargesse il contagio del germe di un’idea diversa dall’ideologia della dittatura. Raccontiamo ai nostri bambini che un giorno di ottanta anni fa – ottanta, non ottocento – bambini come loro e maestri come i loro furono espulsi da scuola per la sola colpa di santificare il sabato. Ricordiamo ai nostri studenti Erasmus che fino a trent’anni fa – trenta, non trecento – i loro colleghi dei Paesi dell’Est potevano viaggiare solo con la fantasia. E prima che qualcuno possa tirare un sospiro di sollievo, pensando che per fortuna tutto questo ormai è acqua passata, pensiamo a quanti luoghi del nostro pianeta sono ancora oggi bagnati da quella stessa acqua malsana. La libertà sovente è data per scontata. Come per l’aria, ce ne rendiamo conto solo quando viene a mancare. Se la sofferenza del nostro animo in questi giorni ci farà apprezzare il suo profondo valore e pensare a tutti quei popoli per i quali rimane ancora impossibile anelito, allora il piccolo virus, nel suo passaggio nefasto, non ci avrà lasciato solo perdite e lutti.
Psichiatra e neuroscienziato, direttore Scuola Imt Alti Studi Lucca