Potrebbe sembrare un sogno di mezza estate, se non addirittura uno scivolio dalla scienza alla speranza. Invece, ne sono davvero convinti ricercatori di mezzo mondo, compreso qualche premio Nobel. Come il virologo Luc Montagnier, che nei giorni scorsi ha previsto l’estinzione del virus per via naturale. O Francesco La Foche, immunologo del Policlinico Umberto I di Roma: ha osservato che, grazie al lockdown, il Covid 19 non trova più abbastanza persone da contagiare e ciò influirà sulla sua carica virale, portando il virus «ad autospegnersi ». Anzi, ha precisato, «i primi caldi possono essere d’aiuto».
Lo sperano tutti i governi dell’emisfero nord. Trump ci scommette, anche se Anthony Fauci ogni volta lo gela, ricordandogli che non ci sarà nessun lieto fine senza un vaccino. Un recente studio dell’Università di Harvard mette in dubbio il ruolo del caldo e sottolinea che «prevedere come si comporterà un nuovo virus in base a come si comportano altri virus è sempre ipotetico». Il riferimento è alla prima Sars: il Covid–19 condivide l’86% del suo Dna. Nel mondo scientifico, comunque, tutti sono convinti che questo virus non sia invincibile. Secondo il virologo Roberto Burioni andrà a finire come nel 1955, quando Salk trovò il vaccino della poliomielite. Alcuni scienziati più pessimisti propendono per un’evoluzione simile alla Spagnola, che si sviluppò in tre ondate tra il 1918 e il 1919 e uccise quasi 100 milioni di persone. Sparì senza vaccino. Come la Sars, che iniziò a diffondersi in Asia nel 2003 e infettò circa 8.000 persone (750 morti): nel luglio dello stesso anno salutò tutti e se ne andò.
Su questa exit strategy è d’accordo, in linea teorica, Davide Zella, braccio destro di Robert Gallo all’Università del Maryland, dove studia il ruolo dei batteri nella formazione dei tumori e il loro effetto sulle terapie anti–cancro: «Anche la Sars proveniva dai pipistrelli – ci spiega – e in quel caso le misure di contenimento funzionarono subito. Ma c’erano delle differenze: la trasmissibilità era minore e non c’era il “problema” degli asintomatici e dei paucisintomatici, che accrescono le possibilità di contagio, in quanto non vengono intercettati. Tuttavia, teoricamente, come è simile l’Rna, anche il comportamento del Covid–19 potrebbe essere analogo a quello della prima Sars, cioè potremmo vederlo estinguersi da solo, magari con il caldo, perché, diversamente dalla Mers (la sindrome respiratoria del Medio Oriente), non sopporta le alte temperature». È l’ipotesi che guida anche chi studia le combinazioni che stanno assumendo i nucleotidi che compongono l’Rna del virus: spigolare nel genoma, a caccia di quelle mutazioni che avvengono continuamente in un coronavirus come in ogni organismo vivente, è un lavoraccio, ma può capitare di incappare nella mutazione “giusta”.
Per capire la portata di questi studi bisogna partire da un dato. I virus sono “pezzi” di Dna o di Rna, cioè molecole ricoperte di altre molecole (proteine o lipidi) che hanno un obiettivo solo: riprodursi. Sarebbe una cosa bellissima, se non sapessero farlo solo a danno delle cellule animali e vegetali: nel caso del Sars–CoV– 2, quelle dei polmoni, dei muscoli, dei neuroni... Si sa che nei soggetti sani la risposta immunitaria contrasta la replicazione virale. Si dimentica però che la reazione provoca una selezione del virus. «I ripetuti cicli contagio/risposta/resistenza – spiega Zella – determinano una situazione di equilibrio tra virus e ospiti, in cui nella popolazione generale la stragrande maggioranza degli individui è resistente ». Il famoso effetto gregge.
Nel momento in cui il virus cerca un equilibrio riproduttivo, una pressione esterna come quella del distanziamento, con il calo dei contagi, può fare in modo che le mutazioni inizino a non centrare più il bersaglio
Anche quando la situazione pare di stasi, il parassita continua a replicare il proprio Dna o Rna nell’ospite, portando l’organismo a quella reazione infiammatoria che può risultare letale. Il modo in cui cerca di sopravvivere è una serie continua di mutazioni, con cui tenta di sfuggire all’apparato immunitario. I meccanismi evolutivi fanno sì che all’inizio ciò lo renda più contagioso nella popolazione e più dannoso nell’ospite e che poi lo porti sempre più ad adattarsi, a cercare un equilibrio riproduttivo.
È in quel preciso momento che, sotto una pressione esterna, che può essere quella del lockdown, le mutazioni iniziano a non centrare più il bersaglio. «La polimerasi – l’enzima che si occupa di replicare il genoma virale – è intrinsecamente portata a introdurre degli errori nella sequenza – avverte Zella – anche se esistono altre proteine che controllano tali errori e ne abbassano la frequenza. Un errore può generare un virus più o meno capace di replicarsi e con caratteristiche di letalità più o meno accentuate. Tendono ad essere favoriti i virus che raggiungono un punto di equilibrio tra questi diversi parametri, quindi capaci di replicarsi e contagiare senza uccidere l’ospite». Per contro, annota, «quelli più mortiferi scompaiono in fretta, com’è successo ad Ebola».
In entrambi i casi, il virus perde sempre. Meno letale per mutazione e meno contagioso per pressione esterna, dopo una prima fase “virulenta”, è portato dalla sua stessa natura a indebolirsi, come rivela uno studio di Massimo Ciccozzi, Roberto Cauda e altri. Hanno analizzato 351 sequenze del genoma di Sars–CoV–2 (provenienti da tutto il mondo) con l’obiettivo di mapparne le variazioni strutturali e i modelli di selezione. È stata studiata la pressione selettiva cui è soggetto il virus ed è stata riscontrata «la presenza di due mutazioni che «potrebbero conferire una stabilità inferiore delle strutture proteiche ». Si badi bene, non si tratta del comportamento di un singolo ceppo virale, bensì di una «evoluzione convergente indipendente del virus», motivata, probabilmente, dalla ricerca di un equilibrio con l’ospite.
In Italia come negli Usa le curve del contagio stanno calando e i focolai al meridione non sembra abbiano attecchito