venerdì 15 maggio 2020
Il corpo sociale all’interno del quale ci muoviamo diventa nella cerimonia del matrimonio coprotagonista della storia degli sposi
Il valore pubblico del matrimonio e la festa che deve durare una vita
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Gentile direttore,
le scriviamo in merito all’articolo, a firma di Luciano Moia, intitolato «Matrimoni: ecco perché non rinunciare alla festa» apparso sul suo giornale domenica 10 maggio 2020. Siamo due fidanzati che hanno deciso di non rinviare il loro matrimonio, previsto per l’11 luglio 2020, ben sapendo che potrebbero esserci molte restrizioni e limitazioni sia per la cerimonia, sia per la festa. Pur rispettando in pieno chi ha deciso di fare una scelta diversa dalla nostra, ci teniamo a sottolineare quanto sia falso e ingannevole presentare un contrasto fra il momento “liturgico”, che sarebbe più intimo, e quello sociale, che sarebbe “pubblico”, del matrimonio. L’aspetto pubblico del matrimonio comincia nel momento dell’esposizione delle pubblicazioni (appunto), passa attraverso la celebrazione dinanzi ad un ministro della Chiesa e ai testimoni (condizioni richieste per la validità!) e continua per tutta la vita, ad esempio con l’obbligo della coabitazione. Tutto questo con o senza invitati. Inoltre, la differenza fra il matrimonio e la festa di nozze consiste nel fatto che il primo dura per tutta la vita, e la seconda alla sera finisce. Scegliere di sposarsi alla sola presenza di celebranti e testimoni non significa compiere una scelta intimistica, ma obbedire alla realtà mantenendo l’essenziale di quello che si celebra. Del resto, abbiamo annunciato a tutti gli invitati la nostra scelta e chiesto di pregare per noi nella Comunione dei Santi. Più pubblico di così! Senza contare che l’esempio nostro e di tanti altri può far recuperare il vero significato del Sacramento. Le scriviamo queste righe non con intento polemico, ma perché ci spiace che la nostra scelta, sofferta, ma veritiera e frutto di un cammino, sia ridotta a un insulso intimismo. Cordiali saluti.

Andrea Montorfano ed Ester Novati

Cari Ester e Andrea, permettetemi di chiamarvi così, amichevolmente, perché da quello che scrivete e dal tono delle vostre parole vi penso giovani – più o meno come i miei figli – o, almeno, 'abbastanza giovani' da poter immaginare e progettare un lungo futuro, gioioso nell’abbraccio della vita che vi chiama a costruire insieme un domani nell’amore e nella verità. Con queste premesse sarà certamente bellissimo per voi, per le vostre famiglie, per la comunità civile ed ecclesiale in cui mi sembrate già pienamente e fecondamente inseriti. Per questo vi sono grato di questa lettera, che il nostro direttore mi affida per una risposta, e quindi dell’occasione di riprendere con voi alcuni passaggi di quel tema così forte e misterioso, decisivo e in parte insondabile che è l’alleanza nuziale. Sono totalmente e convintamente d’accordo con quello che scrivete. Certo che il matrimonio è pubblico, anche se viene celebrato alla presenza dei soli testimoni. Anzi, già l’amore tra fidanzati, se è amore che spera, che promette e che progetta, se coniuga le virtù della fedeltà e quella dell’invenzione, se sa sfidare il doppio ignoto dell’altro e del tempo – alterità e unità – si stacca dal personale per entrare nel sociale. Non a caso la benedizione dei fidanzati, ancora in uso in tante nostre comunità – non ovunque purtroppo – ha proprio il significato di custodia e accompagnamento da parte della Chiesa-madre verso quei figli che hanno scelto di camminare insieme. Mi dispiace che abbiate letto nell’articolo in questione una sottolineatura negativa per chi, come voi, ha deciso di non rimandare le nozze, pur con tutte le possibili restrizioni per l’emergenza sanitaria. Padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia, rispondendo alle mie sollecitazioni, ha subito chiarito che si tratta di una scelta lodevole «perché significa che quei due giovani ci restituiscono il senso profondo di un amore che trova la sua centralità nella fede. Ma il fatto che il matrimonio celebrato anche senza invitati sia – come detto – comunque pubblico e quindi mantenga il suo ruolo socialmente rilevante, non può e non deve significare che il momento della festa non sia importante. Voi scrivete: «Il matrimonio dura per sempre e la festa di nozze alla sera finisce»«Il matrimonio dura per sempre e la festa di nozze alla sera finisce». No, come dice un canto molto amato: «la nostra festa non deve finire», la vostra soprattutto. Il vino che Gesù ha regalato agli sposi di Cana è un dono di gioia che anche voi dovete imparare a scambiarvi per tutta la vita. La festa di nozze è il simbolo di quella gioia. Chiamare a raccolta amici e parenti richiama un dato di profonda verità: sposarsi significa non contare solo sulle proprie forze. Significa, accettando una ritualità antichissima come quella della convivialità nuziale, accogliere il riconoscimento che l’alleanza non è solo unione dei cuore ma integrazione di regole. Il corpo sociale all’interno del quale ci muoviamo diventa nella cerimonia del matrimonio – nella parte liturgica della promessa davanti a Dio e nella parte laica della festa davanti alla comunità – coprotagonista della vostra storia. Sposarsi significa accettare di non essere i soli soggetti dell’alleanza, pur essendo gli sposi i primi nell’ordine della responsabilità. Condividere la festa significa entrare simbolicamente – in attesa di farlo poi nella quotidianità delle relazioni – in una rete di legami più vasti dove la coppia accetterà meglio le proprie imperfezioni grazie al dono del confronto e della condivisione con altre coppie, con parenti, amici. Questa è la simbologia ricchissima della festa nuziale a cui faceva riferimento padre Vianelli. Il banchetto nuziale, oggi inopportuno e vietato, si può rimandare tra sei mesi, tra un anno. Proprio per non privare la vostra storia d’amore di una ritualità che è comunque parte integrante di un’alleanza sociale che parla di appartenenza e di identità. I migliori auguri da tutti noi di 'Avvenire' per le vostre nozze.

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