A Palazzo Dante, sede di rappresentanza del Dis e dell’intelligence italiana, ci sono quattro nomi scolpiti nella cosiddetta "Parete della memoria". Sono quelli di Pietro Antonio Colazzo, Lorenzo D’Auria, Nicola Calipari e Vincenzo Li Causi. Erano operatori dell’intelligence italiana, agenti segreti come si diceva una volta, caduti sul campo, colpiti mentre difendevano in terre lontane gli interessi e la sicurezza dell’Italia: i primi due in Afghanistan, il terzo in Iraq, il quarto in Somalia.
Tanto Piero, come lo chiamavano i colleghi, quanto Nicola, Lorenzo e Vincenzo sapevano bene di aver scelto un difficile e movimentato mestiere. Erano uomini veri, con virtù e umani difetti, lontani dagli stereotipi alla James Bond. Ed erano prudenti, valutavano i rischi di ogni azione correndo solo quelli necessari, consapevoli di essere, al tempo stesso, figli e padri, mariti e amici: Piero scriveva poesie e amava il mare limpido della sua Puglia; Nicola aveva fatto il capo scout a Reggio Calabria; Vincenzo era appassionato dei colori e dei cibi della sua Sicilia; Lorenzo da ragazzino era stato chierichetto a Cavazzona, il suo paesino, e quando tornava a casa si divertiva a giocare coi suoi tre bambini.
Delle loro incombenze, dei rischi corsi quotidianamente per la nostra democratica Repubblica, non rivelavano nulla. «Aveva un forte senso del dovere, non diceva niente nemmeno agli amici più cari», ha raccontato anni fa Mario D’Auria del figlio Lorenzo. È la prima consegna, nel mestiere dello 007, quella del silenzio. Ogni successo, come ogni disfatta, sono oggetto di disamina all’interno. Ma non trapelano e non debbono trapelare. E la riservatezza e il segreto sono regolati dalla legge non certo per coprire deviazioni, abusi o misteri (pure avvenuti, in tempi passati, nella storia di questo Paese: sull’agguato che nel 1993 portò alla morte di Li Causi, ad esempio, ci sono ancora ricostruzioni incomplete), ma perché necessari per proteggere la sicurezza dello Stato e di chi opera in suo nome.
Così, chi lavora per difendere quei valori, deve farlo lontano da ogni riflettore. E chi cade lo fa in silenzio, come Nicola Calipari pronto a proteggere col proprio corpo dai proiettili l’ostaggio Giuliana Sgrena, dopo la sua liberazione nel buio della notte irachena. Alcuni anni fa, l’allora Sismi (oggi Aise), diede alle stampe un libro, "Storie di chi si è dato coraggio" per celebrare eroi senza nome, premiati con medaglie d’oro di cui non potevano raccontare.
Oggi, in una stagione in cui la riservatezza sulle azioni svolte dai nostri 007 si accompagna sempre più alla trasparenza istituzionale sulle funzioni e sulla mission delle agenzie per la sicurezza, la Presidenza del Consiglio ha istituito un premio per ricordare Piero Colazzo, lanciato in occasione della giornata della memoria dei Caduti dell’intelligence nazionale, che ricorre ogni 22 marzo. Colazzo era un funzionario coraggioso e schivo, studioso del mondo arabo e con un animo sensibile, un 'temerario' che annusava il profumo dei fiori, è stato detto al suo funerale. Per onorarne il ricordo, chi vorrà potrà inviare al concorso un racconto o un soggetto originale, immaginando col filtro della letteratura il suo percorso umano e professionale. Perché la memoria degli 'eroi silenti' dell’intelligence non deve andare persa, osserva il sottosegretario alla Sicurezza Franco Gabrielli, già direttore dell’Aisi, e anzi «costituisce la straordinaria eredità morale che guida il nostro agire». La loro testimonianza di vita, si legge sulla parete della memoria nella sede del Dis, contiene una «speranza per il nostro futuro».