Come l’individuo, così le nazioni non faranno mai nulla se non saranno piene di se stesse, di amor proprio, di ambizione
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1828
La capacità di vedere il dolore profondo del mondo nascosto nell’anima più intima delle persone e degli esseri viventi è una grande ricchezza, anche se, dall’esterno, potrebbe apparire come una sofferenza aggiunta. Consente, a chi la possiede, di attingere a una dimensione più vera della vita delle persone e della natura, di gustare più frutti dell’albero della vita. Le generazioni passate erano più fornite di questa capacità, che cresceva con la durezza della vita – l’ho vista forte e chiara nelle mie nonne, in mia madre e in altre donne. È un’abilità composta di empatia e di pietà, di un po’ di virtù e di molto dono, che non solo fa vedere i dolori segreti dei cuori degli altri ma fa anche sentire, provare e condividere quello stesso dolore. I profeti, con la chiamata, ricevono questa capacità, e quindi vedono, sentono e condividono il dolore che a volte essi stessi generano nel popolo con le loro parole di verità. Senza considerare questa loro speciale e diversa sofferenza, non capiamo i profeti, la Bibbia, la vita.
«Vite rigogliosa era Israele, che generava sempre frutti maturi; ma più abbondante era il suo frutto più moltiplicava gli altari; tanto più ricca era la terra più belle faceva le sue steli» (Osea 10,1). Nei commenti che in questi anni abbiamo fatto a vari libri biblici, puntualmente è tornato il tema della maledizione dell’abbondanza. Eccola, chiarissima, anche nel (difficile) capitolo 10 di Osea. La ricchezza e l’abbondanza di beni, che in molte pagine bibliche sono presentate come segno di benedizione divina, in altre pagine mostrano invece il loro lato oscuro. Quando da benedizione la ricchezza si trasforma in maledizione, perché l’abbondanza fa precipitare le persone e le comunità in una trappola di povertà. La ricchezza si chiude su se stessa, le persone dimenticano la vera origine di quei frutti e inizia la malattia mortale. In questi versi Osea ci dice infatti che la generosità della terra di Israele, la terra della promessa la cui fertilità straordinaria era parte della dote di YHWH, è diventata causa di tradimento. Quei grappoli rigogliosi non erano soltanto una faccenda economica; erano molto di più: l’avveramento della promessa, il segno che la parola di Dio era efficace perché era quella di un Dio vero e diverso dagli altri dèi. Viti, grano, fichi, erano dunque sacramenti di cielo, il nuovo eden ricreato dall’alleanza con i Padri dopo il peccato dell’Adam. Non erano i mattoni di Babele, erano i frutti della vita salvata da Noè, non le primizie di Caino il fratricida erano quelle di Abele il giusto. Sta qui il mistero della maledizione dell’abbondanza. Perché è proprio quella ricchezza benedetta, quella dote nuziale, quell’avveramento della promessa dell’unico Dio vero a diventare disgrazia, segno di idolatria e di corruzione religiosa, indicatore di un grave degrado della fede e dell’etica - che nella Bibbia sono la stessa cosa: «Dicono chiacchiere, giurano il falso, stipulano contratti: il diritto fiorisce come pianta velenosa nei solchi dei campi» (10,4).
Le steli sempre più belle erette agli dèi sbagliati, gli altari dedicati al dio Baal e agli idoli cananei, crescevano insieme alla ricchezza della terra: più abbondanti erano i frutti, più spettacolari diventavano le costruzioni per onorare gli dèi della fertilità: «Gli abitanti di Samaria trepidano per il vitellastro» (10,5). Quella ricchezza, espressione della benedizione di Dio per il suo popolo, diventava il primo mezzo per adorare idoli e rinnegare chi li aveva benedetti. La ricchezza qui non è in se stessa segno idolatrico, non è la "mammona" dei vangeli. L’idolo non è condannato perché aureo, la ricchezza non è diventata in sé dio. Di questi peccati Osea ci ha già parlato nel capitolo 8. Qui siamo invece di fronte a un processo idolatrico diverso – Osea ci sta facendo fare un corso avanzato sulla grammatica dell’idolatria. Non dobbiamo mai dimenticare che la Bibbia, soprattutto l’Antico Testamento, non ha, in genere, una visione negativa della ricchezza. L’oro diventa un problema quando è trasformato in dio o quando è usato per costruire altari ad altri dèi. Queste due diverse forme che assume l’idolatria, hanno la loro radice nel medesimo peccato: la progressiva perdita di contatto con la vera economia, quella dei frutti. Ci si dimentica che la ricchezza e i frutti della terra sono dono e provvidenza, e si comincia a pensare che dipendano da altre cause, dalla terra, e soprattutto da noi stessi. Così si diventa ingrati, auto-centrati, non si ringrazia più il datore dei doni. Gli idoli, infatti, non si ringraziano, verso di loro non si può esercitare la gratitudine perché in questi culti non c’è charis, gratuità. L’idolo lo si adora solo per interesse. L’auto-referenzialità, la chiusura al trascendente (gli idoli sono sempre immanenti), la scomparsa della gratitudine, sono i primi passi di questi movimenti idolatrici.
Ecco perché la "maledizione delle risorse" spiega anche molte forme di idolatria antropologica, che si possono descrivere, per analogia, utilizzando le parole di Osea. L’idolatria, infatti, è un fenomeno religioso e tutto umano, una malattia che colpisce persone religiose e atee, e relegarla nella sola esclusiva sfera religiosa della vita impedisce di cogliere molti processi individuali e sociali. Si cade nella patologia idolatrica quando iniziamo ad attribuire le nostre ricchezze, i talenti e i doni soltanto e interamente a noi stessi, alle nostre forze e ai nostri meriti, negando una gratuità più profonda che abita il mondo e ci ama – ogni meritocrazia è ingrata. Questa idolatria è una forma di narcisismo, dove a diventare idolo è il talento più grande, che produce, anche qui, una nevrosi dell’abbondanza (non della povertà). Si perde contatto con il bene più grande che è al di fuori di noi, con un principio esterno e più alto, e ci si nutre consumando i propri talenti fino all’esaurimento del talento stesso.
Ma nell’idolatria di cui ci parla Osea in questo capitolo, lo abbiamo visto, la ricchezza individuale non diventa immediatamente idolo, ma viene invece usata come mezzo per creare nuove divinità e poi adorarle. Qui l’idolo non è il proprio talento, è qualcosa di esterno: una persona, un’idea, un principio, ai quali immoliamo tutte le nostre energie psichiche e spirituali. La dimensione idolatrica è rivelata dal rapporto senza gratuità che si instaura con l’idolo. Sta infatti proprio nell’assenza di gratuità l’inconsistenza intrinseca e la vanitas dell’idolatria. L’idolatria, infatti, non riesce a produrre veri vantaggi per nessuno: se uso il mio talento (di intelligenza, di emozioni, di empatia...) per manipolare te (o un’idea, o un valore) e asservirti a qualche mio interesse, se quindi non ti rispetto con gratuità nella tua trascendenza e libertà e ti uso soltanto o principalmente per qualche mio vantaggio privato, prima o poi questa mancanza di trascendenza e di libertà finisce per farti diventare banale e quindi incapace di arrecarmi alcun vantaggio – le persone, le idee e i valori manipolati si rimpiccioliscono nelle mani del manipolatore, diventano essi stessi meschini e fanno diventare meschini. L’idolo diventa immagine e somiglianza del suo costruttore e viceversa, in un gioco al ribasso di specchi. È questo il principale dispositivo di auto-difesa che possiede la gratuità, che pur essendo fragilissima ed esposta ad ogni abuso, conosce però questa legge che la custodisce nella sua estrema vulnerabilità.
Tutto ciò vale in misura ancora maggiore e in forma più chiara a livello comunitario. All’inizio di una esperienza comunitaria carismatica c’è una promessa trascendente e c’è la gratuità: si crede in un dono gratuito, immenso e immeritato, e si parte dietro a una voce che chiama. Il carisma-dono diventa il trampolino di lancio su un’umanità molto più larga dell’orizzonte privato dei propri interessi. Arrivano presto compagni, amici, seguaci, e attorno alla prima promessa si forma una comunità carismatica che continua la stessa esperienza di gratuità e di infinito. Fondatori e membri sanno molto bene distinguere il carisma dal datore del carisma, e la vita cresce. Arrivano presto i primi frutti abbondanti, e con questi la Bibbia ci dice che può iniziare la fase idolatrica, che è un passaggio (quasi) necessario nel cammino delle comunità. Questa può assumere varie forme, tra queste la maledizione dell’abbondanza. I frutti che arrivano, che all’inizio erano chiaramente e unicamente considerati solo dono, progressivamente iniziano ad essere interpretati come merito del carisma. La comunità si innamora dei frutti che porta e dei miracoli che opera, perde contatto con la vita esterna, meticcia e ordinaria. Mentre all’inizio era la comunità che si plasmava sul suo ideale esterno e più alto e cambiava ogni giorno, nella fase proto-idolatrica è l’ideale che inizia a somigliare sempre più alla comunità che ha generato, una comunità immobile che diventa la forma dentro la quale deve rientrare l’ideale. Siamo già nella fase degli altari e delle steli di Osea, che vengono create e mantenute grazie ai frutti copiosi.
Ma non appena scatta il processo idolatrico, i frutti iniziano a diminuire, e comincia il declino inesorabile della comunità, che qualche volta è annunciato dai suoi profeti, che restano inascoltati. «Le alture dell’iniquità, peccato d’Israele, saranno distrutte, spine e cardi cresceranno sui loro altari; diranno ai monti: "Copriteci", e ai colli: "Cadete su di noi"» (10,8). Il declino comunitario inizia proprio nel momento della massima abbondanza dei frutti che generano la moltiplicazione degli altari, anche quando questi si creano con la convinzione di star adorando sempre lo stesso Dio dell’inizio – se non ci fossero i profeti a smascherare le nostre idolatrie, noi continueremmo tranquillamente a creare in buona fede altarini agli idoli cui daremo il nome di YHWH e di Gesù. La crescita delle steli, delle opere che celebrano il successo, l’orgoglio per la forza dell’impero creato, l’accrescimento del numero dei membri («hai riposto fiducia nella tua forza e nella moltitudine dei tuoi guerrieri»: 10,13), non vengono vissuti dalla comunità come tradimento né, tantomeno, come idolatria ma come lode del carisma e dei suoi frutti.
Eppure il messaggio di Osea e dei profeti è tremendo e chiarissimo: quando il popolo inizia a moltiplicare altari e steli, quando si sente forte e potente grazie ai frutti che sta portando, è già dentro un culto idolatrico anche se non ne è cosciente. I profeti invece lo sanno, forse soltanto loro; e così criticano i nostri imperi, cantano il deserto, cantano la tenda mobile, cantano la nuda ricchezza della voce sola. Perché sanno che solo la piccolezza e la debolezza possono ascoltare e accogliere una promessa infinita di gratuità. E così ci invitano a smontare le nostre torri, a distruggere altari e steli, a tornare poveri e liberi aramei erranti. Noi amiamo troppo le illusioni e non lo facciamo, e loro continuano il loro canto.
l.bruni@lumsa.it