Se almeno di tanto in tanto Sergio Romano frequentasse ambienti cattolici, saprebbe che i missionari sono tra le persone considerate più aperte al dialogo, capaci di valorizzare le differenze, disponibili a incontrare e, persino, ad amare chi – per geografia, cultura e religione – sta letteralmente agli antipodi. Ho scritto 'ambienti cattolici', ma temo di aver peccato per difetto. Giacché è trasversale e rimane diffusa la stima per le donne e gli uomini che ancora oggi, sebbene molti meno di un tempo, partono e, in nome del Vangelo, consacrano letteralmente la vita a servizio di Dio e degli ultimi.
In Amazzonia come nel cuore dell’Africa, nel fitto delle foreste e nelle desolate baraccopoli delle periferie urbane. Se l’ex ambasciatore, insomma, i missionari li conoscesse (un po’ più da vicino di quanto appare da ciò che afferma nell'intervista uscita nei giorni scorsi su un quotidiano che di solito rifugge dai giudizi sommari e ingiusti, 'Il Riformista'), non sarebbe incorso in uno svarione incomprensibile. Romano, infatti, dopo aver ricordato che i taleban sono dei 'missionari' – e qui le virgolette sue o di chi l’ha intervistato fanno letteralmente la differenza! – conclude con una rasoiata: «Ragionare con i missionari (senza virgolette) non è mai facile, e qualche volta è addirittura inutile».
Ora: paragonare i taleban dell’Afghanistan ai missionari cristiani è un’operazione forse giornalisticamente comoda, perché semplifica una realtà complessa, ma foriera di conseguenze pericolose. Come leggiamo nel documentatissimo 'Osama e i suoi fratelli. Atlante mondiale dell’islam politico' di Camille Eid (pubblicato da PIMedit nel 2001, poco dopo la tragedia dell’11 settembre), «il 'Movimento islamico dei taleban dell’Afghanistan' è formato principalmente dagli studenti di teologia islamica ('taleban' è appunto il plurale farsi di 'taleb' che significa studente) di etnia pashtun nelle scuole coraniche del Pakistan». Detto altrimenti, la traduzione più corretta di 'taleban' sarebbe 'seminaristi' (non 'missionari'). Ma questi sono dettagli.
Quel che è più grave è la tacita equivalenza che Romano istituisce, cosciente o meno, tra la missione cristiana e la da’wa islamica. Vero è che entrambi i concetti fanno riferimento all’annuncio (nel primo caso evangelico, nel secondo dell’islam), ma tanto i contenuti quanto il metodo delle due sono abissalmente diversi. Tanto i seguaci di Cristo si spendono ai confini del mondo in modo pacifico, a tal punto disarmati da diventare essi stessi, talora, martiri, tanto i taleban utilizzano la violenza, verbale e fisica, quale strumento principe per l’affermazione del loro credo. Va ricordato, a questo proposito, che il debutto sulla scena mondiale dei taleban (termine che, poi, non a caso nella vulgata quotidiana ha assunto l’accezione di intransigente, in senso totalmente negativo) risale al 24 giugno 1994: quel giorno gli 'studenti' abbandonarono le loro madrasse (scuole), varcando la frontiera con l’Afghanistan, avvalendosi di una fatwa che autorizzava il jihad contro la corruzione e il vizio dei mujaheddin. Un anno dopo faranno il loro ingresso trionfale a Kabul dove impiccheranno il presidente destituito Mohammad Najibullah e imporranno il loro famigerato 'ordine' alla popolazione.
Nei secoli scorsi taluni missionari cristiani si sono macchiati di eurocentrismo e razzismo, facendo mostra non solo di una grave incapacità di dialogare quanto di un sentimento totalmente ingiustificato (figlio del tempo) di pretesa superiorità dell’uomo bianco. E, tuttavia, oggi possiamo affermare, senza tema di smentita, che pure nel passato esistono luminosi esempi di missionari con i quali i contemporanei hanno potuto ragionare (due nomi su tutti, anche se la lista sarebbe lunga: il domenicano Bartolomé de Las Casas e il gesuita Matteo Ricci). È anche grazie alla loro testimonianza che via via la missione cristiana, specie dopo il Vaticano II, si è purificata dei peccati di un tempo, aprendosi al mondo, ai popoli, alle culture, al 'diverso'. In una parola: al soffio dello Spirito.