C’è un modo femminile di interpretare e vivere il potere? Sociologi, psicologi, esperti di organizzazione aziendale hanno elaborato molte e articolate analisi su questa tematica. Ma la risposta più eloquente è arrivata ieri dalla Nuova Zelanda, con le dimissioni a sorpresa di quella che è stata tra le più giovani premier della storia, oltre che la seconda (dopo la pachistana Benazir Bhutto) a partorire un figlio durante il suo mandato. Ebbene, Jacinda Ardern, classe 1980, commossa e in lacrime, ha lasciato l’incarico dopo 4 anni e mezzo di appassionato e coraggioso (e anche controverso su tante questioni etiche) servizio. Un caso di burnout, apparentemente, cioè di eccessivo affaticamento da lavoro: « Per me è arrivato il momento, sono esausta», ha chiarito. Del resto, dicono i detrattori, il Partito laburista era in calo di consensi, alcuni cavalli di battaglia erano rimasti al palo, il Paese è in subbuglio per l’aumento del costo della vita, della criminalità e per l’emergere di nuove emergenze sociali.
Ma c’è qualcosa d’altro su cui riflettere. C’è il passo indietro di una donna che ha ammesso di non essere più la persona giusta a svolgere quel lavoro di immensa responsabilità, e che altri avrebbero potuto fare meglio di lei. Quanti uomini ai vertici delle istituzioni sarebbero in grado di dichiarare lo stesso, non sentendosi più sostenuti dal consenso popolare o accusando il colpo della fatica?
La decisione di Jacinda Ardern, sottolineata con l’auspicio, ancora una volta profondamente femminile, di potersi occupare di più della figlia Neve (« Non vedo l’ora di essere presente al suo primo giorno di scuola») e del compagno Clarke Gayford (« Finalmente ci sposeremo»), mette in luce alcuni punti di discussione. Alcune esperte di parità di genere notano che le generazioni più giovani, le future leader politiche, per molte delle quali Ardern è stata un modello a cui ispirarsi, potranno sentire congeniale l’idea di essere loro stesse a decidere il tempo giusto per ogni cosa, senza costrizioni. Libere di marciare al massimo per quanto ritengono necessario, libere anche di ritirarsi quando ritengono esaurita la propria missione. Senza attaccamenti inutili al potere.
Per la generazione di leader a cui appartiene l’ex premier neozelandese la questione è più controversa. Neofite del potere ai massimi livelli (pensiamo alla 37enne premier finlandese Sanna Marin, alla collega 46enne della Moldavia Natalia Gavrili a, alla coetanea dell’Estonia Kaja Kallas, fino alla nostra premier Giorgia Meloni), per tutte loro il ritiro di Ardern potrebbe essere più denso di ombre.
La “stanchezza” dichiarata della premier dimissionaria, il sentirsi pressata dagli impegni e dalle aspettative, dalle responsabilità e dagli oneri, sono di tutte loro. Lo stesso compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, in una intervista a un quotidiano ieri ha fatto capire quanto è grande l’impegno di far crescere serena la figlia di una premier… In questo non è diverso essere donna o uomo: guidare un Paese è tra i ruoli più sfidanti che possano esistere, ma fa parte del gioco per chi sceglie l’impegno pubblico. A questo si aggiunge, però, tutto ciò che il maschilismo e il sessismo ancora presente nelle nostre società riservano solo ed esclusivamente alle donne.
Nell’era dei social, ogni veleno fuoriesce libero, ogni critica ha cittadinanza: se la premier porta con sé la figlia ai summit internazionali non va bene, ma se non la porta è una madre snaturata, se balla a una festa tra amici si disinteressa della vita del Paese… La stessa Sanna Marin proprio qualche giorno fa, al vertice di Davos, ha chiesto seccata ai giornalisti di occuparsi più della sua agenda politica che della sua persona. Questo può logorare, è indubbio. E forse allora è vero che la società fatica ancora ad accettare che ai vertici ci sia una donna e che questa donna oltre che occuparsi del Paese abbia degli affetti, e non li voglia mettere da parte.
Tenere tutto insieme, professione e vita privata, carriera e cuore, è l’eterna aspirazione delle donne che lavorano. Qualche volta vanno “a corto di energia”, come Jacinda Ardern. Ammetterlo è doloroso, ma non disonorevole. Anzi, è espressione alta di una leadership pragmatica, onesta e coraggiosa. In una parola, femminile.