«N
el mistero dell’Infinito / oscilla un pianeta, / e, sul pianeta, una città, / e, nella città, un parco giochi, / e, nel parco giochi, un albero / che la sera si trasforma in luce… ». Il simbolo dell’Expo è lui, l’albero della vita. Non poteva essere altrimenti. Dal
Genesi in poi tutto ruota intorno agli alberi. Il popolo del decumano, quando l’ha visto in fondo al cardo, per giunta in formato elettronico e multicolor, col sonoro incorporato, non ha capito più niente e si è messo a cliccare all’impazzata. L’Expo non sarà stata completamente inutile se sarà servito a ricordarci la nostra natura originaria e il nostro sogno fondamentale. Chi siamo? Siamo corpi che hanno scritto dentro, a caratteri invisibili ma incancellabili, il paradiso (tipo il bendidio esposto nei padiglioni), e nel paradiso, l’albero splendente. Cos’è quest’albero? È il ricordo dell’inizio, tanto buono tanto bello, poi perduto, ora da ritrovare. Il fine di tutte le lotte eroiche (e di tutte le ricette migliori) è recuperare nel futuro il tempo passato. La vita è davvero “
la recherce du temps perdu”. Perché il tempo perduto è stato
eros, non
thanatos. Amore, non morte. E noi adesso abbiamo il desiderio (vocazione) di riconquistarlo e di mangiarlo quale cibo succulento. “Chi siamo?”, “Cos’è l’albero della vita?” sono le due domande che userei per selezionare il prossimo sindaco- giardiniere di Milano. Aggiungendone una terza: “Dove lo metti, l’albero? Fuori le mura o nel cuore della città?”. Non farei neanche le primarie, di più, abolirei le elezioni se qualcuno mi rispondesse con linguaggio esente da errori; “Lo pianto nel posto più importante. Non lo lascio ai bordi della periferia. Lo voglio davanti alla mia finestra, in Piazza della Scala. È l’albero – non l’obelisco, la piramide, la ziggurat, la guglia del grattacielo – che dà la vita. L’albero regala i suoi frutti dodici volte all’anno, per ciascun mese il suo frutto; le sue foglie guariscono le nazioni”. Radicato lì, nel mezzo del viavai, anch’io lo incontrerei ogni mattina. Appoggerei la mia mano sul suo tronco, contento di poterlo interrogare: “Cosa c’è di nuovo oggi?” La sua risposta mi arriverebbe senza esitazioni, portata da centinaia di foglie: “Tutto”.