Un soldato ucraino sul fronte orientale. Nel 2014 la Crimea è annessa alla Russia con referendum popolare Ue e Nato hanno sanzionato Mosca
«La Crimea è sempre stata parte integrante della Russia, nel cuore e nella testa del nostro popolo». Sono le parole con le quali Vladimir Putin chiudeva il discorso pronunciato al Cremlino per celebrare l’annessione della penisola di Crimea, nella primavera del 2014.
Nonostante il linguaggio trionfale, restava però un problema centrale da risolvere: l’isolamento geografico. Collegata all’Ucraina dall’istmo di Perekop, che separa il Mar Nero dal Mare di Azov, la Crimea è infatti separata dalla provincia russa di Krasnodar dallo Stretto di Kerch, una lingua d’acqua difficile e impervia, con una complicata conformazione geologica, un’alta attività sismica, condizioni climatiche aspre. Come se non bastasse, il fondo marino dello Stretto è inoltre composto da una sedimentazione sabbiosa, che raggiunge sino a 60 metri di profondità e che in inverno accoglie anche le acque dolci del Danubio, congelandone la superficie: una sfida ulteriore per qualsiasi progetto ingegneristico. «Negli anni ’90 era una follia pensare di costruire un ponte che collegasse Kerch alla Russia, ci hanno pensato tante volte, ma non è mai sembrato davvero possibile – spiega Oleksandr Kovalets, un grossista di frutta di base a Simferopoli, centro amministrativo della penisola –. Oggi la situazione però è cambiata: il ponte per noi ora è vitale. Verso Nord le vie di comunicazione sono bloccate e diventa molto difficile commerciare il pesce, il vino, la frutta, di queste zone: le nostre pesche sono buonissime».
A costruire il ponte più lungo e costoso di tutta la Russia ci penserà la Stroygazmontazh, società controllata da Arkady Rotenberg, amico d’infanzia e compagno di judo del presidente Vladimir Putin. Rothenberg, sessantatré anni, ha un patrimonio personale stimato in due miliardi e mezzo di dollari, messo insieme principalmente grazie alle commesse ricevute negli ultimi anni per la costruzione di infrastrutture in tutto il Paese. Gasdotti, autostrade, palazzetti: nel solo 2015 la sua azienda ha firmato contratti con il governo di Mosca pari a oltre 9 miliardi di dollari.
Il ponte si estenderà per 19 chilometri e avrà un costo di 228 miliardi di rubli (3.5 miliardi di euro): il 70% dei piloni è già stato posato e la prima parte, che permetterà il passaggio di automobili e camion, dovrebbe essere completata entro il dicembre 2018, mentre la sezione ferroviaria verrà ultimata per la primavera del 2019. Una volta terminato, il ponte sullo stretto di Kerch sancirà il definitivo controllo russo sulla penisola della Crimea, rinforzando il peso geopolitico della Russia sullo scacchiere diplomatico internazionale. «Per gli ucraini la questione della Crimea è ormai quasi completamente dimenticata, qui a Kiev come nel resto della nazione. Bisogna pure considerare che per tantissimi di noi la Crimea è sempre stata, al massimo, un luogo in cui andare in vacanza. Non significa che come cittadina ucraina accetto l’annessione della Crimea alla Russia: si tratta di un sopruso cui bisogna reagire in ogni modo possibile. Però è così che la questione è prevalentemente percepita nel Paese.
La maggior parte dei miei amici nemmeno lo sa che si sta costruendo un ponte a Kerch per accelerare i collegamenti con la Russia, e sono tutti ragazzi che si informano, universitari che sono scesi in piazza durante la rivoluzione di Euromaidan, nel 2014. La questione è soprattutto politica. Certo, le istituzioni fanno tutto il possibile per mantenere alta l’attenzione, ma i problemi in Ucraina sono altri: abbiamo la guerra in casa, nelle regioni dell’Est, e quella non se lo scorda nessuno». Anya Karpenko, figura di riferimento del movimento studentesco di Kiev, parla a bassa voce, seduta al tavolo di un caffè a pochi passi da piazza Maidan. Sul viale Khreschatyk, il lungo viale affilato che taglia in due il centro della città, non c’è più traccia di una rivoluzione ormai alle spalle. Niente più barricate, nessuna pila di pneumatici, via i tendoni per i paramilitari, i checkpoint, le scritte sui muri. Kiev è il simbolo di un paese che lotta strenuamente per riconquistare una condizione di normalità. Una sfida difficile, in cui hanno un peso determinante, anche dal punto di vista economico, il conflitto nel Donbass, la perdita della Crimea e le tensioni a tutto campo con la Russia. L’impegno militare e diplomatico contro Mosca ha avuto un impatto molto pesante sull’equilibrio finanziario della nazione: oggi il reddito mensile medio di un ucraino, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, è il più basso d’Europa, con 188 euro al mese. Per comprendere la portata della situazione, basta pensare che a combattere nelle regioni di Donetsk, Lugansk e Kharkiv contro i separatisti sono impegnati, ancora oggi, oltre 60.000 militari, vale a dire un quarto di tutto il personale attivo dell’esercito, in una battaglia che ha già lasciato sul campo 10.000 vittime e oltre 25.000 feriti. «La costruzione del ponte sullo stretto di Kerch non era assolutamente necessaria ed è finanziariamente del tutto incomprensibile, soprattutto in una fase di grande recessione come quella che stiamo attraversando – spiega un professore dell’Università russa di economia Plechanov, che preferisce rimanere anonimo –. Per colpa di questo ponte si è praticamente bloccata la realizzazione di qualsiasi altra infrastruttura in tutto il paese, mentre sarebbe bastato incrementare il numero di traghetti fra Kerch e Taman per migliorare i collegamenti. C’era davvero bisogno di una spesa così enorme? Dal punto di vista economico, assolutamente no, ma se si considera la parte politica della questione, allora tutto assume un significato diverso».
Per molti, il tentativo di Vladimir Putin guarda, oltre all'enorme impatto in termini di strategia geopolitica, alla conquista, in tempo per le elezioni presidenziali del 2018, dell’appoggio definitivo da parte della popolazione locale. Non solo dei russi, che corrispondono al 65% degli abitanti, ma anche di tutti gli ucraini, dei tatari e delle minoranze armene, bielorusse ed ebree, in fondo poco interessati alla discussione politica e molto più concentrati sugli eventuali vantaggi che il ponte potrebbe portare all’economia locale.