Forse il progetto non era una guerra-lampo, ma il tentativo di appropriarsi lentamente di tutte le risorse e degli impianti decisivi per sfiancare Kiev. E fissare un confine sul Dnepr - Ansa
Si è parlato spesso, nei giorni scorsi, di un parziale fallimento dell’invasione russa, dando per scontato che ciò che il Cremlino cercava in Ucraina fosse, in sostanza, una specie di guerra-lampo con obiettivo Kiev. Al netto della difesa degli ucraini, che si mostra assai coraggiosa ed efficace, dovremmo forse rivedere alcune di quelle conclusioni. Intanto, viene da chiedersi quale generale o ministro possa aver garantito a Vladimir Putin che sarebbe stato facile piegare un’Ucraina che si era comunque preparata al peggio, ammodernando l’esercito, potenziandolo negli uomini (circa 200mila) e nei mezzi (nel 2021 la spesa per la difesa è stata pari al 4,1% del Pil, e in più sono arrivati gli aiuti finanziari e militari dai Paesi amici) e facendolo affiancare da una milizia territoriale che nei programmi doveva allineare 130mila uomini.
Ma non è questo il punto. Più utile osservare le molte cartine che sono state finora pubblicate per tenere sotto controllo l’avanzata delle forze russe. Si nota che l’armata che ha invaso l’Ucraina procede sì lentamente ma tracciando di ora in ora un arco sempre più ampio che va dalla Bielorussia a Nord alla Moldavia a Sud, e che poi si addentra verso il centro dell’Ucraina. Nessuna particolare avanzata, nessun tentativo di blitz, nemmeno nei confronti della capitale Kiev, la cui caduta avrebbe ovviamente un enorme valore simbolico e strategico. In altre parole, i movimenti dei russi non danno l’idea di un corpo di spedizione inviato a “punire” un nemico ma piuttosto di un’avanguardia incaricata di annichilirlo. Fin dai primi giorni i russi si sono mossi in direzione dei caposaldi dell’economia ucraina e delle sue infrastrutture essenziali, con l’intenzione evidente di conquistarli, non di distruggerli.
La guerra è cominciata il 24 febbraio, il 26 i genieri russi già si preoccupavano di far saltare la barriera che gli ucraini aveva costruito nel 2014, per bloccare il Canale di Crimea, quello che portava l’acqua del Dnepr alla penisola riannessa dalla Russia. È parso, allora, un gesto soprattutto dimostrativo, la “liberazione” dei crimeani dal giogo della sete imposto dagli ucraini. Invece era il primo passo di quella che or- mai si delinea come l’appropriazione con la forza delle risorse del Paese invaso. Dobbiamo ricordare che nel 2014, riprendendosi la Crimea e assistendo le Repubbliche autoproclamate del Donbass nella loro battaglia per l’indipendenza, Mosca ha di fatto sottratto alla giurisdizione di Kiev il 7,2% del territorio che comprendeva le regioni che contribuivano per il 20% alla produzione del Prodotto interno lordo ucraino e al 25% delle esportazioni. Il Donbass (sigla che sta per Donezkij Bassein, Bacino del Donec) è un’area geografica piatta e omogenea che si estende sui due lati del confine tra Russia e Ucraina, ricca di minerali e materie prime. Perdere la propria parte del Donbass, come dicevamo, è stata una mutilazione per l’Ucraina che, infatti, non si è più ripresa: tutte le rilevazioni dicono che il Paese che fu il “granaio dell’Urss” è oggi il più povero d’Europa insieme con la Moldavia. Ora Vladimir Putin si appresta a completare l’opera. A Nord le sue truppe puntano a conquistare Khar’kiv, seconda città ucraina per popolazione (1,5 milioni di abitanti) e grande centro industriale, soprattutto nel settore metallurgico e degli armamenti. Khar’kiv, che si trova a una trentina di chilometri dal confine con la Russia, è anche un grande hub del traffico commerciale ferroviario e automobilistico tra Est e Ovest.
La tentazione non sembra essere quella di ricostruire l’Urss, come spesso si dice, ma, peggio, di riportare la storia ai tempi dell’impero Militari russi in Ucraina avanzano verso Kiev
Guardiamo la cartina e immaginiamo che Khar’kiv cada. Si sarebbe creata, a questo punto, una corona di città filorusse o occupate dai russi (Khar’kiv, Lugansk, Donetsk e Zaporizhia, di cui diremo più avanti) che guarda verso Dnipro, terza città dell’Ucraina, altro grosso centro industriale (in epoca sovietica era uno del- le basi principali del programma spaziale) attestato sul fiume Dnepr da cui prende il nome. E prendere Dnipro vorrebbe dire controllare la principale via d’acqua interna dell’Ucraina, il fiume che da Nord a Sud la taglia in due. Scenari da Risiko? Può essere. Ma bisogna tener conto di due fattori. Intanto questo progetto ripeterebbe quasi alla lettera l’offensiva che nell’agosto del 1943 fu decisa da Stalin per sfondare la linea tedesca, attestata appunto lungo il Dnepr. Un’operazione molto studiata nelle accademie militari sovietiche e russe, oltre che una pagina di storia patria che i russi conoscono bene: si scontrarono 4 milioni di soldati, i russi ebbero almeno 300mila morti e quasi un milione di feriti. E sappiamo bene quanta importanza le vicende della Grande Guerra Patriottica (così i russi chiamano quel conflitto) abbiano assunto negli ultimi anni nell’immaginario di questo popolo.
Il secondo e più importante fattore è l’offensiva che le truppe di Putin stanno intanto sviluppando a Sud, all’altra estremità dell’arco. Gli obiettivi sono chiari: i grandi porti di Mariupol’ e Odessa, la cui importanza non sta solo nel traffico marittimo. Mariupol’, per esempio, conta molto anche per l’industria mineraria e per un’acciaieria tra le più importanti del Paese, con 300mila operai. Conquistare queste città priverebbe l’Ucraina di un accesso commerciale al mare e trasformerebbe il Mare di Azov e anche il Mar Nero, almeno in tutta la parte Nord, in un lago privato della Russia. Abbiamo citato prima Zaporozhia. Nei prezzi della città c’è Enerhodar, la località dove sorge la centrale nucleare più grande d’Europa e la quinta più grande del mondo, un impianto che da solo produce più del 20% di tutta l’energia elettrica consumata in Ucraina. È apparso chiaro, nei giorni scorsi, che gli strateghi militari del Cremlino avevano un piano per le centrali atomiche del Paese invaso. Prima è stata occupata quella di Chernobyl, poi quella di Zaporozhia. Ora le truppe russe, da Sud, cercano di risalire verso Nord e aprirsi la strada verso quella di Yuzhnoukrainsk. Il conto è presto fatto: l’Ucraina dispone di quattro centrali attive più quella di Chernobyl. Delle quattro attive, la più grande è già stata presa, una seconda è minacciata. E intanto i missili russi colpiscono, una dopo l’altra, le centrali elettriche tradizionali.
I movimenti dell’esercito russo non danno l’idea di un corpo di spedizione inviato a “punire” un nemico ma piuttosto di un’avanguardia incaricata di annichilirlo
Sembrerebbe una tattica per strangolare il nemico e costringerlo alla resa. Ma c’è qualcosa di più. Sembra cioè un piano di lungo termine: strappare all’Ucraina tutte le risorse e gli impianti decisivi per poi attestarsi lungo il Dnepr, “costruendo” così quel confine naturale con la Russia che nel Donbass, per le caratteristiche del terreno, non esiste. Potrebbe delinearsi così quella Novorossiya di cui spesso, soprattutto negli anni scorsi, hanno parlato gli indipendentisti del Donbass. Per poi lasciare sull’altro lato del fiume un’entità spogliata di ogni risorsa, impoverita, drenata delle risorse umane migliori dopo la guerra e l’emigrazione forzata, intimorita. Un progetto di annichilimento. Un progetto che non rimanda alla tentazione di ricostruire l’Urss, come spesso si dice, ma, peggio, alla nostalgia dell’impero. Se il piano fosse questo e si compisse, l’Ucraina verrebbe riportata non al 1990 ma al 1656, al Trattato di Andrusovo. Quando sulla riva destra del Dnepr comandava la Russia e su quella sinistra la Polonia.