Nelle Città invisibili, di Italo Calvino, Marco Polo descrive all’imperatore della Cina, Kublai Khan un ponte come arco di pietre: «Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?» chiede l’imperatore. «Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra – risponde Marco Polo – ma dalla linea dell’arco che esse formano». Kublai Khan rimane in silenzio, poi soggiunge: «Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa». «Senza pietre non c’è arco» risponde il viaggiatore.
Il 6 giugno del 2015 il Papa incontrando i giovani a Sarajevo ripensa al ponte sul fiume color smeraldo di Miljacka, luogo di innesco della prima guerra mondiale, ricordando Die Brücke , «Il ponte», film del 1959 firmato dall’avanguardia tedesca e ambientato durante l’occupazione nazista. «Ho visto quel film e lì ho visto come il ponte sempre unisce – dice Francesco –. Quando il ponte non si usa per andare uno verso l’altro ma è un ponte vietato diventa la rovina di una civiltà, la rovina di una società, di un’esistenza. Per questo da voi, da questa prima generazione del dopoguerra, mi aspetto che facciate in modo che si possa andare da una parte all’altra. Farsi pietra del ponte è lasciare che si possa andare da una parte all’altra. Questa è fratellanza». Non solo alla Gmg di Panama, Paese-ponte per antonomasia, ma anche in quella precedente di Cracovia ha invitato a realizzare nel crocevia dell’Europa «il ponte primordiale», ripetendo che «vorrebbero farci credere che chiuderci è il miglior modo di proteggerci. Oggi noi adulti abbiamo bisogno di voi, per insegnarci a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un’opportunità: abbiate il coraggio di insegnarci che è più facile costruire ponti che innalzare muri».
Percorrere le strade delle fraternità per la ritessitura dell’unica famiglia umana significa anche farsi ponti in àmbiti prioritari come quello quello del dialogo con le altre religioni, perché sono ponti per la pace. Come quello che porterà da domenica papa Francesco per la prima volta anche nella Penisola arabica. Fatto questo carico di valenze simboliche che non possono sfuggire, considerato come quella sia la terra del profeta Maometto, dove si trovano Medina e La Mecca, e dunque, per il credente musulmano, terra-santuario.
Quella degli Emirati Arabi – che il Papa visiterà fino al 5 febbraio (Il programma)– è anche terra dove per ragioni storiche, sociali ed economiche si è coagulata una comunità cristiana numerosa, multirazziale e quanto mai variegata e dove la convivenza è caratterizzata dalla tolleranza religiosa. Per il Successore di Pietro, del resto, il mandato di farsi ponte è inscritto nel Dna del suo ministero: Pontifex (da pons, 'ponte', e facere, 'fare') è stato usato fin dall’inizio della storia della Chiesa per indicare i vescovi, in particolare il Vescovo di Roma. Un mandato cristiano dunque che in un tempo che ha visto alzarsi troppi muri tra i popoli è divenuto il suo programma.
È un programma che aveva già descritto e prospettato fin dai primi giorni del suo ministero petrino. Nella prima udienza al corpo diplomatico, il 22 marzo 2013, il Papa aveva infatti anticipato con nitida chiarezza su quale arco avrebbe gettato il passo: «Uno dei titoli del Vescovo di Roma è Pontefice, cioè colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini. Desidero proprio che il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere e abbracciare. Le mie stesse origini poi mi spingono a lavorare per edificare ponti... e così in me è sempre vivo questo dialogo tra luoghi e culture fra loro distanti, tra un capo del mondo e l’altro, oggi sempre più vicini, interdipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fraternità». E aveva qui messo tra i primi il dialogo interreligioso: «In quest’opera è fondamentale anche il ruolo della religione. Non si possono, infatti, costruire ponti tra gli uomini, dimenticando Dio. Ma vale anche il contrario: non si possono vivere legami veri con Dio ignorando gli altri. Per questo è importante intensificare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l’islam», aveva detto apprezzando la presenza alla Messa d’inizio del suo ministero di molte autorità civili e religiose del mondo islamico.
Fin dall’inizio, pertanto, papa Francesco aveva limpidamente prospettato gli archi che avrebbe proiettato e percorso come instancabile costruttore di ponti, svelando la missione alla quale Dio lo ha chiamato in questi tempi convulsi, lacerati e ottenebrati dalla «terza guerra mondiale a pezzi» per edificare l’unica famiglia umana, facendosi anzitutto ponte come Cristo, Principe della pace. E come costruttore di ponti ha infranto lo schema che ha identificato troppo a lungo il cattolicesimo con l’Occidente, stracciato l’idea del ricorso alla guerra giusta di coloro che speculano sulle guerre per vendere armi e soffiano sullo scontro tra culture e religioni per perseguire i propri scopi. «La guerra c’è, ma non è una guerra di religioni» ha detto chiaramente e più volte denunciando gli interessi dei «pianificatori del terrore» e degli «interessi geopolitici che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro». La strada è investire sull’educazione alla mutua conoscenza e al dialogo, oggi la più ardua e lunga, ma l’unica efficace e duratura. Un dialogo che è dovere imprescindibile e vitale, e costituisce anche l’antidoto migliore contro ogni forma di fondamentalismo, denunciando tale fenomeno e constatando l’esistenza di atteggiamenti e pratiche antidialogiche e fondamentaliste anche dentro la Chiesa. «Una scuola di umanità e un fattore di unità che aiuta a costruire una società fondata sulla tolleranza e il mutuo rispetto, che non può limitarsi ai soli responsabili delle comunità religiose», come aveva prospettato nel discorso alla Conferenza internazionale sulla pace all’Università di Al-Azhar nella visita al Cairo del 2017. Del dialogo aveva tracciato i tre «orientamenti fondamentali: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni». Non si costruisce infati dialogo autentico sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro. Inoltre, la sincerità delle intenzioni è un segno necessario per attestare che il dialogo «non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità. L’unica alternativa alla civiltà dell’incontro, rimarcava il Successore di Pietro, «è l’inciviltà dello scontro». Per contrastare veramente la barbarie occorre accompagnare e far maturare generazioni che rispondano alla logica incendiaria del male con la paziente crescita del bene.
Il ponte gettato verso gli Emirati Arabi, e poi quello successivo in Marocco a fine marzo, si slanciano così dal Vangelo, sono eredità francescana; passano per la dichiarazione conciliare Nostra Aetate; vengono dalla beatificazione collettiva della martoriata Chiesa in Algeria, nel dicembre 2018, dove i testimoni, nell’ordinarietà di una vita condivisa si sono fatti costruttori di passerelle tra le religioni abramitiche; e arrivano dritti dall’incontro in Egitto nell’aprile 2017. Ponti tangibili, che hanno la supremazia sulle parole nella bussola di un tempo che – immemore – spinge a naufragare nell’ombra oscura di nuovi muri e nuovi orrori, in un mondo dove c’è bisogno di costruttori di pace e non di provocatori di conflitti, di pompieri e non di incendiari. Di riconciliazione, e non di banditori di distruzione.