Caro Avvenire,
ho letto con interesse la risposta di Marina Corradi alla lettera «Calamaio e rispetto, quando gli insegnanti erano semplicemente autorevoli» (pubblicata giovedì 1 febbraio 2018). Sono un’insegnante di una scuola superiore di Reggio Emilia, e attraverso quella risposta ho riflettuto su un episodio che mi è capitato proprio in questi giorni. Come spesso accade, incontro i genitori per parlare dei ragazzi. Un genitore di origine straniera è venuto da me, perché il figlio è appena passato nella mia classe dopo un ri-orientamento. Voleva conoscermi e parlarmi del figlio. Un genitore semplice, lavoratore, da tanti anni in Italia, 4 figli di cui questo è il più piccolo. Gli altri tre tutti all’Università. Posso solo immaginare i sacrifici per un uomo che nella propria famiglia è il solo a lavorare. A un certo punto mi dice: «Maestra (è così che spesso mi chiamano, anche se i figli sono grandi), io vi ho mandato mio figlio perché il suo dovere è la scuola, solo la scuola. Deve studiare. I miei figli sono il mio capitale (che parola strana, mi ha colpito, ma ho capito subito). Io non sono più giovane, non torno giovane, posso solo fare il lavoro che ho. Loro devono studiare per fare bene nella vita. Chiamatemi per parlare di lui quando volete, vi ringrazio. È importante che lui stia a scuola bene (come dire in modo corretto, senza fare sciocchezze). Grazie. Tornerò presto». Questo incontro mi ha fatto pensare. Ci sono genitori forse meno istruiti, tanto impegnati nel lavoro, che hanno il coraggio di affidarsi agli adulti che si occupano dei loro figli tutti i giorni. Chiedono un tacito aiuto per farli crescere in modo che un giorno possano essere autonomi nella vita. Lo so, non sono tanti oggi, si è perso il senso del rispetto dei ruoli, ognuno con la propria specificità. Ed è così rasserenante e bello poter affiancare un genitore che si confronta con te in modo sereno. Questi sono, poi, i ragazzi che hanno ancora un minimo di senso di rispetto per gli adulti, che sanno chi è autorevole, chi sa guidarli con polso fermo, nonostante la loro vita irrequieta di adolescenti. Non serve recuperare l’autoritarismo, ma l’autorevolezza. Non serve imporsi sui ragazzi con il solo comando, non serve dare solo ordini. Prendere per mano con fermezza permette di accompagnare e aggiustare le cose che non vanno. Quanti genitori semplici una volta si fidavano di questo tuo atteggiamento. Quanto sarebbe bello che lo recuperassero. Da parte nostra chiaramente ci vuole preparazione, fermezza, disponibilità al dialogo, coerenza, accoglienza, ci vuole un po’ di quel cuore di cui adulti e ragazzi hanno ancora bisogno.
Monica Riva Reggio Emilia
Un padre straniero, un uomo semplice che è riuscito con fatica a mandare già tre figli all’Università. E ora si preoccupa del minore, alle superiori. Va dalla insegnante, che chiama semplicemente, ma con rispetto, «maestra», e le parla di quel figlio che deve studiare, di quel figlio che è il suo «capitale». Sembra un diario di altri tempi: siamo abituati a genitori che difendono i figli a oltranza, che li giustificano sempre, che anche quando hanno torto stanno regolarmente dalla loro parte e contro gli insegnanti, di cui contestano l’autorità. Non è sempre e solo così, ma accade e accade troppo spesso. La rottura del patto educativo che reggeva un tempo la scuola, quell’alleanza fra famiglia e docenti nel comune intento di dare una guida autorevole ai ragazzi, è oggi raccontata perfino da episodi di cronaca, da storie di professori aggrediti da padri intemperanti. Ma, senza arrivare a questo, chi conosce la scuola riferisce come docenti e famiglia si ritrovino frequentemente avversari: il figlio ha sempre ragione, ogni osservazione è vissuta dai genitori come un affronto personale.Per contro, la lettera di questa professoressa testimonia di un padre che le presenta il suo ragazzo e glielo affida, come il suo più grande bene. È di origine straniera, e per fare studiare quattro figli deve essersi spaccato la schiena. Non parla benissimo l’italiano, però ha ben chiaro in testa cosa si aspetta dalla scuola, e dal suo ragazzo. Non è nemmeno una pretesa la sua, è la domanda accorata e piena di dignità con cui si mette in mano a un altro ciò che si ha di più caro. Ecco un caso in cui un “nuovo italiano” (probabilmente non ancora cittadino) insegna qualcosa a noi, e dà una lezione a quelle famiglie che iperproteggono i figli, facendone eterni, smarriti bambini. Dall’altra parte, in cattedra, ci vogliono uomini e donne non solo culturalmente preparati, ma che abbiano un cuore, come scrive la professoressa Riva. Un cuore in cui accogliere quei figli d’altri, non soltanto trasmettendo nozioni ma ascoltandoli e guardandoli nella inquietudine della loro adolescenza; certi comunque di un bene, di una maturità umana cui vogliono portarli. Insegnanti così, ne esistono ancora e sempre, come quella che ci scrive. Singolare però, e significativo, come a affidarle umilmente il figlio come unico “capitale” sia un genitore immigrato, uno che viene da lontano, un povero che lavora, non si lamenta e cambia le cose. Uno non viziato dai beni e dalla garanzie, spesso troppi, male intesi e male usati, in cui siamo cresciuti noi.