Oggi lavorare per la comunità significa innanzitutto lavorare con la comunità. Lavorare per le persone significa lavorare con le persone. Questo atteggiamento di fondo introduce ad un immaginario e ad un azione profondamente diversi da come nel passato secolo abbiamo sviluppato i diversi lavori di prossimità e i servizi di welfare. Di fronte ai tre grandi fenomeni che da ormai tre decenni attraversano a passi spediti la nostra società, si tratta di provare ad interpretare questo tempo attraverso circuiti virtuosi rinnovati e non attraverso la continuazione di apparenti consolidate abitudini, ormai decadenti.
I tre radicali fenomeni che stanno cambiando il quadro quotidiano della nostra convivenza, del nostro stare in relazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo sono: gli assetti demografici, i flussi migratori, la tecnocrazia. Questi tre fenomeni hanno tra loro un evidente intreccio, nel loro procedere nel tempo e nello spazio, che crea ulteriori situazioni e sottofenomeni rilevanti. Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito ad una massiccia entrata delle 'professioni sociali' nei nostri contesti di vita. Sulla scia delle diverse specializzazioni derivate dalla disciplina medica sono entrate sulla scena moltissime figure professionali sul versante socio-educativoassistenziale. Se contiamo 'l’esercito' delle badanti (all’ultimo gradino gerarchico della scala di riconoscimento sociale) possiamo tranquillamente affermare che si sono creati più di due milioni di posti di lavoro. Abbiamo assistito inoltre all’emersione di forme organizzative ed economiche nuove che oggi trovano anche la loro complessiva legittimità all’interno della legge quadro sul Terzo settore.
C’è da aggiungere inoltre che in particolare sul versante 'privato' si va allargando l’area di intervento e quindi di mercato e di investimento su tutto ciò che attiene ai servizi alla persona. In questo caso è la tecnologia digitale che costituisce lo strumento di penetrazione (si pensi ad esempio alle diverse piattaforme di welfare aziendale che stanno prendendo piede a valle dei diversi contratti). Il paradigma si è retto sino ad ora su un’idea prestazionale e specialistica, erogativa ed individualizzata. Da una parte gli utenti dall’altra gli esperti. Insomma anche i servizi alla persona hanno seguito (al di là delle retoriche politiche di ogni colore) il potente destino della società dei consumi. A bisogno individuale risposta specializzata di un esperto professionista (singolare o plurale) con il suo apparato specifico di tecniche e strumenti. Pubblico, privato e terzo settore hanno prevalentemente seguito questa strada, con poche eccezioni.
È questa l’interpretazione della realtà che ha prodotto i posti di lavoro in questo ambito, sostenuti dall’allargamento della spesa sul versante pubblico e da un uso sempre più consistente di spesa diretta e indiretta di persone e famiglie. Si pensi ad esempio a come vengono pagate le badanti (pensione, assegno di accompagnamento, risparmi) o a come si finanzia il welfare aziendale. Se si rimarrà in questo paradigma (consumo individuale di servizi di welfare) è chiaro che l’efficientamento che ogni mercato richiede introdurrà massicce dosi di tecnologia nel sistema. Molte macchine sostituiranno molti uomini e donne, essendo in grado di garantire dentro un certo standard, maggiore quantità di prestazioni e quindi maggiore produttività a minor costo.
L’innovazione in questo caso sarà solo tecnologica strumentale. È e sarà inevitabilmente così? Questo è il nostro inesorabile destino? Personalmente non credo. I tre fenomeni che ho nominato investono oggi visceralmente ognuno di noi. Spingono ad interrogarsi, non ci lasciano soddisfatti le sole risposte immediate che danno generalmente vita a soluzioni posticce e superficiali. A proposito di superficialità si pensi a come spesso sono gestiti i servizi di 'accoglienza' ai migranti. La situazione presente ci invita pressantemente a riproporci un tema di senso e ci rimbalza la questione del nostro legame con gli altri. Insomma riemerge il tema della comunità, delle forme di convivenza tra le persone, dell’aiuto reciproco, della giustizia, della solidarietà che nasce dal rispecchiamento della fragilità diffusa. È avendo il coraggio di stare sulla frontiera di questa realtà che può prendere forma il nostro essere 'con' gli altri come prima risposta elementare di senso.
Qui si entra allora in un altro paradigma, che non nega ciò che di buono ci è stato consegnato dal passato , ma che rigenera le forme e non teme la sfida di questo tempo, anzi, la interpreta in modo più profondo. Come direbbe papa Francesco ha il coraggio di stare nel tempo non solo di occupare gli spazi che sono stati conquistati. I l tema del 'con' ci conduce quindi alla ricerca di nuove forme di capacitazione diffusa per le persone, ci fa immaginare nuove forme di convivenza abitativa, ci fa sperimentare processi partecipativi e alleanze inedite. Mette tutti nella condizione di contribuire al benessere. Perché stare con gli altri significa trasformarsi, cambiare. Il paradosso è che oggi avremmo a disposizione moltissimi strumenti e apparati legislativi moderni, ma anche una grande tradizione di secoli che ha bisogno solo di essere reinterpretata. Scegliere il paradigma del 'con' richiede di non sfuggire al 'perché' delle cose e interrogarsi sul valore del 'cosa', senza cedere immediatamente all’ansia del 'come fare'. Ci vuole una certa libertà ed un sogno di pienezza. Sono certo che questa innovazione porterebbe maggior lavoro perché, come direbbe Hanna Arendt, generato dall’ingegno dell’opera e dalla profondità dell’azione. In grado quindi di costituire un patrimonio, non un semplice flusso tra 'utenti' e 'professionisti'.