A prima vista nulla avvicina l’ammiraglio von Tirpitz, il capo della Marina del Reich guglielmino all’inizio del secolo scorso, e Jens Wedemann, il 44enne governatore della Bundesbank, nominato due anni fa da Angela Merkel, e ancora contrario – ieri – persino alla di nuovo timida e insufficiente linea di difesa dell’euro da parte della Bce di Mario Draghi. E in fondo la stessa Germania di un secolo fa è radicalmente diversa da quella di oggi. Eppure una comparazione fra due epoche e due personaggi così diversi può forse aiutare a leggere in prospettiva storica l’atteggiamento della classe dirigente tedesca nella crisi dell’euro.Chiunque rilegga le ricostruzioni storiche degli eventi che nel 1914 condussero l’Europa a un gigantesco suicidio collettivo (la cui migliore definizione fu fornita nel 1917 da Benedetto XV: «L’inutile strage») è percorso da un singolare brivido. A differenza degli eventi che avrebbero portato alla seconda guerra mondiale, quelli che condussero al conflitto del 14-18 non appaiono segnati dall’ineluttabilità. Nessuno fra i grandi protagonisti politici della belle époque voleva chiaramente una guerra, come Hitler trent’anni più tardi, anche se nessuno la escludeva, magari immaginandola meno terribile (meno "totale" e meno lunga) di come poi effettivamente fu. Ma gran parte di essi maturarono la convinzione che una guerra, in particolare un conflitto franco-tedesco, fosse inevitabile, data la politica di potenza di ciascuno dei grandi Stati europei, sia nella gestione delle spinose questioni dei Balcani, sia nella colonizzazione dell’Asia e dell’Africa. Sicché dalle molte ricostruzioni di quegli anni (sulle quali l’opinione pubblica sarà presto invitata a tornare, in vista del centenario, ormai prossimo) si ricava la sensazione che bastasse una scintilla per far scoppiare un immane incendio: e questo ruolo toccò al nazionalista serbo Gavilo Princip, che il 28 giugno 1914 assassinò a Sarajevo l’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando.La controversia franco-tedesca era allora la madre di tutti i problemi e ciò induceva il Reich guglielmino a cercare affannosamente alleati, corteggiando aggressivamente la Russia e l’Inghilterra: un corteggiamento finalizzato a convincere russi e britannici che sarebbe stato meglio allearsi con la Germania che averla come nemica. Lo strumento utilizzato rispetto a questo fine fu il rafforzamento dell’esercito e, soprattutto, della marina, innescando una spettacolare corsa agli armamenti. I leader politici tedeschi dell’epoca, in particolare il cancelliere Bethmann Hollweg, erano tuttavia determinati a operare con prudenza, convinti che – come diceva già Bismarck – la Germania non fosse sola in Europa. Ma i militari, e in particolare la marina, perseguivano una strategia propria, basata sulla sola forza, grazie a quella indipendenza dal controllo politico che era iniziata proprio in età bismarckiana: gli sforzi dei capi politici prima per evitare la guerra, poi per porvi anticipatamente fine furono così vanificati.Tornando ai nostri tempi, così diversi (fortunatamente in meglio), sembra potersi intravedere la stessa spirale di irresponsabilità delle classi dirigenti europee: nessuno vuole la fine dell’euro, ma quasi nessuno di essi è pronto a fare fino in fondo la propria parte per evitarla. O, forse, non ne è in condizione o semplicemente non ne è capace. Magari accampando non poche buone ragioni: dall’esigenza del rigore nei bilanci a quella della promozione della crescita o della tutela dei diritti sociali. Alcuni leader politici, pur con limiti evidenti, ci stanno provando nonostante che settori diversi delle classi dirigenti tentino di fare gioco a sé. Cento anni fa erano la marina tedesca, i panslavisti russi e i servizi segreti francesi a giocare sporco, soffiando sul fuoco per provocare conflitti. Oggi la Bundesbank sembra aver assunto un ruolo analogo, nel tentativo di bloccare (magari fiancheggiando alcuni politici, come Seehofer e Rösler, forse i capi più scialbi che rispettivamente i cristiano sociali della Csu e i liberali della Fdp abbiano avuto negli ultimi decenni) e riuscendo già a depotenziare pericolosamente i faticosi tentativi di spegnere l’incendio condotti da Mario Draghi e dei capi di Stato e di Governo dell’«asse latino» (il francese Hollande, lo spagnolo Rajoy e il nostro Monti). La logica è almeno in parte quella di un secolo fa: la Germania pensa solo a sé stessa, abbarbicandosi a situazioni e regole che ha contribuito a creare, in buona misura nel suo interesse (allora la scellerata annessione dell’Alsazia-Lorena, oggi una governance dell’euro manifestamente incompleta).Anche in questa fase, come cento anni fa, le responsabilità degli "altri" europei sono enormi, e quelle italiane (si guardi indietro agli ultimi trenta sconsiderati anni di finanze allegre) tutt’altro che marginali. Ma il rischio di una fine dell’euro, seguita da una crisi di esistenza dell’Unione Europea, che riporterebbe l’orologio della storia continentale indietro di decenni, dovrebbe indurre a cercare di utilizzare le vie di uscita disponibili, non ad arrendersi all’ennesima tentazione di una
Deutsche Sonderweg, di un’orgogliosa "eccezione tedesca".