La "questione migranti" ha tenuto banco per tutta l’estate nel circo mediatico. Ancora una volta quasi sempre all’insegna dell’«emergenza» o comunque della problematicità: la ripresa degli sbarchi sulle coste italiane conseguente alla riattivazione della rotta del Mediterraneo centrale dopo la (semi)chiusura di quella balcanica, i blocchi alle frontiere con la Francia, la Svizzera e l’Austria, la 'scoperta' (ciclica) di ghetti nelle campagne dove esplode il lavoro stagionale irregolare. È facile prevedere che tra qualche giorno a questa catena di aspetti problematici si aggiungerà un nuovo anello, legato alla presenza degli allievi stranieri nelle scuole. Non mancherà qualche capopopolo pronto a denunciare l’ennesima 'invasione', non mancheranno cronache giornalistiche che descrivono classi-pollaio dove gli italiani sono diventati una minoranza, polemiche legate al velo, proteste per la mancanza di risorse adeguate (laboratori linguistici, mediatori culturali)...
Insomma, una scuola già affollata di problemi appesantita dalla presenza dei figli degli immigrati o di ragazzi arrivati tra noi da soli. La speranza, ovviamente, è che la previsione si riveli sbagliata. E che, assieme a noi, in tanti aprano gli occhi su quello che, pur tra innegabili ed evidenti difficoltà, è diventato in questi anni il più grande laboratorio di integrazione operante nel nostro Paese. Sono più di 815mila gli alunni con cittadinanza non italiana, il 9,2% della popolazione scolastica, un universo multietnico rappresentato da 194 nazionalità. I 'neoarrivati' – cioè coloro che sono entrati nel sistema scolastico nell’ultimo anno e quindi, prevedibilmente, con maggiori difficoltà di apprendimento – non arrivano al 5%, mentre più della metà è nata e cresciuta qui (mediamente il 55%, con una punta dell’85% nelle scuole dell’infanzia): ragazzi stranieri dal punto di vista giuridico, ma spesso italiani nella sostanza, con una buona padronanza linguistica e che hanno già fatto un significativo percorso di acculturazione. Un percorso che in molti casi li trasforma in 'ponti' tra la società ospitante e quella di origine nei confronti dei loro genitori.
L’Italia, a differenza di altri Paesi, ha privilegiato la pratica dell’inclusione scolastica evitando la costruzione di luoghi di apprendimento separati. Negli anni si è affermato un modello interculturale che tende a valorizzare i contributi provenienti dalle diverse identità, nella consapevolezza che lo studente di origini straniere può costituire un’occasione per ripensare e rinnovare l’azione didattica a vantaggio di tutti, un’occasione di cambiamento per tutta la scuola. Per tanti dirigenti e docenti – all’opera in centinaia di esperienze locali spesso poco illuminate dai media perché non 'fanno notizia' – educare significa mettersi in gioco in prima persona di fronte a una realtà che pone interrogativi nuovi, spesso faticosa, ma in cui la diversità non è di per sé sinonimo di negatività, non è vissuta come un ostacolo ma diventa occasione per interpretare al meglio il compito educativo e per generare un bene per tutti.
Un amico insegnante mi diceva: «Si fanno tanti convegni e seminari sugli stranieri a scuola, si affinano metodi e strumenti didattici... ma la questione fondamentale è guardare all’altro come una risorsa, una presenza che ci costringe a tornare alle origini di un lavoro scomodo e affascinante come il nostro. Lavorando con i ragazzi stranieri si scopre che la vera integrazione non è qualcosa che neutralizza la diversità ma la valorizza, e che per agevolare un percorso di integrazione l’insegnante non deve annacquare se stesso, ma andare più a fondo di ciò che tiene in piedi la sua vita e la società in cui viviamo. E per farlo c’è bisogno di un continuo confronto con l’altro».
È così che la vita in classe diventa un piccologrande cantiere in cui si impara ad 'abitare' insieme, a conoscersi e a stimarsi, a sperimentare che si è necessari l’uno all’altro, che si è parte di uno stesso popolo. Per dirla con le parole di papa Francesco, molte volte echeggiate su queste colonne, i migranti «prima di essere numeri, sono volti, nomi, storie». Persone con cui misurarsi a partire dalla comune appartenenza alla stessa famiglia umana, e che ripropongono l’ineludibilità della sfida educativa, l’unica per cui vale la pena fare scuola. A tutti coloro che continuano a raccoglierla, l’augurio di un buon anno di lavoro.