C’è qualcosa in Nepal che rende sempre attesa una visita e che segna immancabilmente la ripartenza con la nostalgia. Sicuramente la varietà e la bellezza dei suoi ambienti naturali, il contrasto tra la vivacità delle sue città, la serenità delle sue campagne e l’isolamento di vaste regioni montane; la varietà delle sue genti e delle sue tradizioni, la bonomia e l’accoglienza dei suoi abitanti non disgiunte da operosità e tenacia. Un tempo sullo sfondo di arretratezza e isolamento, oggi in modo sempre più tridimensionale proiettati su cambiamento e sviluppo.
Il monsone di agosto che con una forza inaudita ha devastato vaste regioni anche a quote elevate abitualmente solo sfiorate dalle precipitazioni, ha portato alluvioni che se nelle regioni meridionali e nella Valle di Kathmandu hanno evidenziato la necessità di infrastrutture e servizi di emergenza più adeguati a una situazione in modo crescente instabile, altrove – nel Dolpa, nel Mustang, nel Solokhumbu dominato dall’Everest – hanno visto un caos di frane, crolli e fango ignote alla memoria e alle statistiche. Sicuramente una situazione di eccezione in parte casuale, in parte inserita in cambiamenti climatici che da anni ormai si presentano fino ad alta quota. Tuttavia il recente dissesto ha ancor più evidenziato le problematiche ambientali connesse allo sviluppo e nell’emergenza sono apparsi con chiarezza i limiti di una realtà che, se si avvia ufficialmente a uscire dal sottosviluppo nel 2026, alla fine del triennio di presidenza nepalese dei Paesi meno sviluppati avendo superato di slancio i parametri internazionali previsti per accedere al livello superiore, le risorse disponibili restano inadeguate.
Il Nepal ha oggi 30 milioni di abitanti su un territorio inferiore a 148mila chilometri quadrati che equivale alla metà di quello italiano ma con aree limitate dove concentrare la sua popolazione che ancora registra un tasso di crescita reale attorno all’uno per cento annuo nonostante l’elevata mortalità. Sul computo complessivo dei nepalesi residenti su cui calibrare servizi, investimenti e iniziative pubbliche pesa anche una consistente e crescente emigrazione per lavoro, che ha avuto un’accelerazione dopo il devastante sisma dell’aprile 2015 di cui soprattutto i centri maggiori portano ancora tracce evidenti e che ha aperto le porte a consistenti aiuti dall’estero, ma anche a un flusso di partenze dettate dalle necessità e dalle opportunità, trasformando la migrazione in un beneficio in rimesse di sette miliardi di euro nel 2022, secondo fattore nel Pil (9,2 per cento) dopo l’agricoltura (32 per cento) che impiega ancora il 65 per cento della popolazione attiva.
Il graduale ammodernamento è percepibile di anno in anno, con una evoluzione lenta e sostanzialmente attenta alle radici territoriali e storiche. Restano evidenti i danni del terremoto del 2015, come pure il complesso rapporto di Kathmandu con Cina e India con le quali l’equidistanza è una sfida costante. La Cina ha contribuito significativamente alla ricostruzione post-terremoto e una massa di prodotti cinesi assedia i mercati, tuttavia vi sono limiti che il governo di Kathmandu sa di non potere superare, pena ritorsioni del protettore indiano. Chiuso su ogni lato da confini terrestri, il Nepal è di fatto un protettorato indiano e se l’autosufficienza alimentare è una realtà da tempo, l’interscambio con l’immenso partner vale oltre l’80 per cento dei commerci e la dipendenza è pressoché totale per i carburanti, i combustibili e i beni tecnologici. Gli attriti non sono infrequenti, con il blocco da parte indiana delle frontiere meridionali dove il movimento autonomista Madeshi di forte impronta filo-indiana si è dato una consistente rappresentanza politica di cui tenere conto.
Al governo quasi ininterrottamente dal 2008, alla fine di una decennale guerra civile costata 10mila morti, i maoisti guidati dall’ex Comandante Prachanda, al secolo Pushpa Kamal Dahal, attuale premier, gestiscono il Paese senza particolari scossoni anche se con frequenti chiamate alle urne e in tempi recenti con minore seguito. Il Partito del Congresso, più antico e ideologicamente ispirato dall’omonimo indiano, è relegato in una posizione subordinata che pare inattaccabile quanto il dominio degli ex guerriglieri del Partito comunista del Nepal. A completare – complicandolo – il quadro politico è il ritrovato attivismo dell’ultimo sovrano, Gyanendra, sopravvissuto al massacro con cui un giovane erede decimò la propria stessa famiglia e sul trono dal 2001 al 2008. Raramente visto in pubblico dopo la sua destituzione anche per i suoi impegni imprenditoriali, ha lanciato a gennaio un movimento per tornare sul trono e restaurare l’identità indù del Nepal. Una pretesa che riprende il concetto di discendenza divina del sovrano. Per quanto all’apparenza velleitaria, questa proposta da febbraio ha mobilitato migliaia di nepalesi in raduni e marce fino a luglio quando, poco prima della partenza di Prachanda per colloqui in India, diversi leader del suo partito gli hanno chiesto di organizzare un referendum per chiedere ai nepalesi se vogliono che il loro resti un Paese laico oppure tornare a essere uno Stato indù, con un’evidente convergenza di interessi con Gyanendra. L’inquietudine strisciante si è aggravata quando, durante il viaggio, lo stesso Prachanda ha fatto una tappa inaspettata nella città templare di Ujjain, nell’India centrale, dove è apparso vestito con gli abiti color zafferano del devoto indù e ha partecipato a cerimonie religiose. Non senza reazioni, dato che al ritorno, l’ex comandante maoista ha dovuto tranquillizzare anzitutto i suoi sulla tenuta della propria fede politica e sulla consistenza del suo ateismo. Il rapporto post-bellico tra la monarchia nepalese e gruppi dell’induismo militante, tra cui il Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) da cui fece parte l’assassino del Mahatma Gandhi sono noti ma, sottolinea SD Muni, docente della Scuola di Studi internazionali dell’università indiana “Jawaharlala Nehru”, se «tutti primi ministri indiani precedenti hanno segnalato i tratti culturali comuni a Nepal e India, la politicizzazione dell’induismo e la politicizzazione della religione sono monopolio del Bjp, soprattutto a causa dell’influenza dell’Rss».
Se la tentazione di Dahal di prestarsi a accogliere una politica tinta di arancione dovesse associarsi a un rinnovato favore pubblico per la monarchia e alla sponsorizzazione dell’induismo militante anche in Nepal da parte del Bharatiya Janata Party, Bjp, partito di governo in India (timore espresso da esponenti della società civile nepalese), la situazione potrebbe degenerare e coinvolgere anche la comunità cattolica.
Vicariato apostolico nel 2007 con sede a Kathmandu da cui dipendono le 16 parrocchie che raccolgono circa 8,000 fedeli, a preoccupare la minuscola Chiesa nepalese come la società civile locale è la persistenza degli aspetti discriminatori del sistema castale, del lavoro minorile, dell’analfabetismo, dell’ineguaglianza di genere e di possibilità. Preoccupano l’insoddisfazione e la disoccupazione che segnano la realtà giovanile e la mettono a rischio di sfruttamento, ma attenzione è rivolta anche all’ecologia, alla dipendenza di alcune aree da un turismo, incluso l’alpinismo di alta quota, che accresce in diversi casi il degrado di un territorio fragile e incide in vario modo sullo stile di vita locale. La recente tendenza degli Sherpa dell’Everest ad abbandonare il ruolo di portatori e guide per le spedizioni alpinistiche che affollano luoghi un tempo improntati a bellezza e sacralità ha alla base un’esistenza di fatica e rischi che va cedendo alle lusinghe di possibilità alternative di reddito in patria o altrove.