sabato 10 settembre 2016
 Il monastero metropolitano dove la preghiera è dire sì
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Arrivano uno ad uno, suonano, bussano: donne con bimbi per mano o in braccio, gli occhi tristi di chi non riesce più a guardare al futuro, semmai al domani e basta. Il vecchio e pesante portone del 'monastero metropolitano' s’apre lentamente. Torino, appena oltre il mercatino del 'Balun' di Porta Palazzo, sulle sponde della Dora. Le auto sfrecciano veloci; i tram rumoreggiano sui binari di corso Giulio Cesare; centinaia di persone sui marciapiedi cominciano un altro giorno. Ma qui, sotto la grande bandiera della pace, da cinquant’anni è così. A destra, nel grande cortile coperto, una statua della Madonna, un angolo di sosta per Madre Teresa e in mezzo all’edera la lampada della pace sempre accesa. C’è un gruppo di ragazzi di una scuola: scremano gli abiti che devono essere perfetti per chi non può comprarseli. Lo fanno con una gioia contagiosa. Due donne percorrono il lungo corridoio che porta alle loro stanze. Sono vittime di violenze che hanno trovato rifugio. Poco distante, al piano rialzato, sopra le stanze dell’accoglienza, nella cappella dell’uomo dei dolori, si prega. 

 

Il centro della fraternità della speranza del Sermig è qui. Si prega e si canta per la giornata che comincia. Ernesto Olivero, che ha fondato questa famiglia speciale, legge un passo della Bibbia e lo commenta ogni giorno, e tra poco sarà anche su internet. Poi ognuno prende la sua strada. Andrea, prete appena consacrato con Simone e Lorenzo, che invece partiranno per l’altro Arsenale di San Paolo, dove ogni sera ci sono oltre mille senzaniente da sfamare, lavare e vestire, muovono i primi passi in quello che è diventato un porto in Torino, un porto nella città. Le donne e gli uomini che hanno trascorso la notte al riparo, fanno colazione e ripartono: chi a cercar lavoro, una casa, dei parenti. Ci sono molti immigrati, ma anche italiani distrutti dalla crisi, cacciati in strada dalla miseria e dalla malattia, messi ai margini , 'fuori dalle mura della città', spesso dai casi di vite difficili, spezzate, massacrate. «La fame di Dio e la fame di pane», ci racconta Rosanna che, con molte altre, gestisce passaggi, soste, casi , possono stare insieme. «La nostra comunità convive i drammi di questa recessione infinita da tanto tempo. Senza problemi». Dietro il grande ed originale cortile di questo che è stato l’arsenale di guerra più fornito di armi del primo e secondo conflitto mondiale, ci sono gli edifici in mattoni dove si facevano le bombe dei mortai. Ora ci sono gli ambulatori per chi il medico non se lo può pagare.

 

Anche qui, pazientemente in attesa, stranieri e non. Persone che hanno bisogno di assistenza o molto più semplicemente di farsi mettere a posto un dente. I medici sono tutti volontari che vengono dai grandi ospedali come le Molinette o il San Giovanni Bosco, il Martini o il Maria Vittoria. Nella nuova Chiesa, voluta dai genitori per ricordare la figlia morta in un incidente, alcuni pregano. È sempre così in questo posto che ha tanti nomi ma un solo cuore. Sembra la fotografia di Marta e Maria. Mentre qualcuno lavora, l’adorazione continua ed altri prendono a braccetto il disagio come i genitori che portano i bambini a curarsi al Regina Margherita per tumori. Non sanno dove andare e vengono qui. La mensa, quella storica, costruita tanti anni fa non basta più, ne funziona un’altra perché le bocche da sfamare, con la grande gelata che ha ingrippato la società, aumentano. Nel salone che s’affaccia sul giardino delle rose si organizza la realizzazione di un acquedotto in Africa, si prepara il lancio di una raccolta di fondi per un bimbo che deve essere operato in America. Il ritmo della giornata non accenna a rallentare e ogni puzzle di questo cortile dei disagi è al posto giusto. Passa Claudio che va ad incontrare ragazzi che vengono qui da tutt’Italia. Passa Annamaria, passa Silvia, Maria, ecc .In fondo al corridoi c’è l’asilo del mondo. Oltre venti etnie che , vivono, crescono, giocano nei giardini e nelle strade non lontane dal Cottolengo e dal Valdocco di don Bosco.

 

A Torino i segni di Dio si ripetono. Oggi ci sono anche alcuni sacerdoti venuti da Piacenza e Vicenza. Vogliono vedere come la giornata di fede può convivere con la grande necessità di rispondere all’esplosione di povertà che non s’arresta, come si fa a pregare con serenità quando alla porta, in continuazione, ci sono persone che chiedono un tetto ed un tozzo di pane. Non ci sono segreti e neppure protocolli. Nessuno ha regole precise. Anzi, una regola c’è. È quella scritta da Ernesto Olivero ed ha un titolo eloquente: «La gioia di rispondere sì». L’ha voluta per chi crede, per chi non crede, per chi crede di non credere, per chi crede di credere, per chi crede che la bontà porta pace. Qui è tutto volontariato, giorno e notte. Anche per rintracciare qualcuno al telefono esiste una sorta di catena di gente che si mette a disposizione per contattare e comunicare: un call center della carità. E giorno e notte la porta è aperta. S’affaccia una giovane ucraina giunta a Torino dopo un viaggio-fuga rocambolesco. Ha la gonna sdrucita e sporca, l’aspettano, l’abbracciano, la portano a mangiare un panino. La carità ora ha il suo volto. «Tocchi con mano che davvero il bene è una coperta che ti copre quando fuori fa freddo – mi racconta Matteo – un pasto che ti fa sentire a casa dopo tanto tempo, uno sguardo che non giudica». L’ andirivieni continua ininterrotto.

 

Nelle stanze, ogni giorno e anche oggi c’è chi racconta, protetto dalla assoluta discrezione, la sua storia. Storie di vite vere e salvate. C’è chi con pazienza infinita ricostruisce ponti inaspettati verso mondi altrimenti dimenticati, prepara dossier di denuncia dell’ingiustizia. È la forza prorompente dei giovani e di chi lavora contemporaneamente su tanti fronti. Mi portano da Colette, scappata dall’inferno del Congo; saluto Catalin che adesso non ha più paura. Lo ha trovato, sfinito, Simona davanti ai cortili dell’arsenale, picchiato a sangue dai suoi sfruttatori che lo usavano per estirpare il rame dalle viscere delle fabbriche abbandonate. Quante schegge del mondo che dietro le tendine si nascondono per rinascere. È l’ora del pranzo, ma anche della preghiera di metà giornata. Si sale sotto il crocifisso che illumina tutti i mali del mondo e le mani giunte hanno l’aspetto della mondialità: si prega per gli ospiti dell’arsenale del Brasile, per quello dei disabili di Amman, per quelli di Torino che, nel silenzio, mobilita una catena di solidarietà e di aiuti incredibile e ogni giorno permette di accogliere, nutrire, scaldare migliaia di persone.

 

Dietro una struttura come questa – quella che ha preparato il pranzo per l’incontro di papa Francesco con i giovani del carcere Ferrante Aporti, quella che l’arcivescovo Cesare Nosiglia ha voluto a gestire i suoi rifugi per dei senzaniente, quella delle marce della pace e delle cene della restituzione – c’è un popolo di amici. Ma certo non basterebbe se qualcuno dall’alto ci pensasse. Si incrociano tante vite strappate alla notte come Anca o Rebecca, ma si toccano con le mani anche tanti sogni. Sì è l’aspetto più inatteso. «Ognuno ha l’età dei suoi sogni», mi ripete Ernesto Olivero che a 75 anni, alle spalle una vita da bancario, sulla testa e nel cuore l’incoscienza vigile di un uomo di Dio. A Torino tra non poche difficoltà ha costruito un luogo dove fede e lavoro stanno bene insieme. E si vede.

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